di Salvatore Rotondi
“Ci vogliono due pietre focaie per accendere un fuoco.” (Lousia May Alcott)
Il desiderio di appartenenza
Mi ricordo, da adolescente, di aver avuto un profondo desiderio di appartenenza a qualcosa e/o a qualcuno. Entrare nella fase dell’adolescenza, d’altronde, è anche questo: cambiamento e desiderio di qualcosa che ci è ancora sconosciuto ma che sembra ci stia chiamando. Una chiamata, una vocazione.
All’epoca la mia vita ruotava intorno a 4 grandi direttrici o fulcri sociali: la famiglia, la scuola, la parrocchia, gli amici della piazzetta. Insomma, una intensa vita “social” reale (quindi meno virtuale…all’epoca non c’era neanche Messenger della Microsoft)… insoddisfacente.
Sembrava mancare qualcosa.
Mi mancava, come eterosessuale, una ragazza… mancava l’elemento che mi avrebbe definito come uomo (e non più un ragazzino): la fidanzata.
Intorno a me, durante l’epoca pre-mocciana dei lucchetti, coppie di ragazzi e ragazze che, mano nella mano, andavano insieme a comprare le allora famose “fedine”, ovvero anellini che non costavano tantissimo (oggi si comprano sulle bancarelle per vezzo estetico) ma che rappresentavano una promessa di fedeltà…finché altro uomo o donna non li avrebbero separati.
Per un ragazzo come me, fortemente cattolico e praticante, quello scambio di anelli sembrava qualcosa di profondamente serio, in particolare se poi come conseguenza aveva quella di conoscere e frequentare (specialmente di domenica a pranzo) la famiglia di lei o di lui. Una vera e propria rivoluzione: uscire dalla propria famiglia per “entrare” in un’altra famiglia, i cui usi e costumi erano forse profondamente diversi da quelli che mi appartenevano e che avevano definito la mia personalità fino a quel momento.
D’altronde, come diceva un mio vecchio amico, se vuoi andare al di là della sua mano da stringere in pubblico, qualche “sacrificio” lo dovevi pur fare: ti dovevi Fidanzare.
Il fidanzamento
Dopo diversi decenni e percorsi di formazione personali, ad oggi mi trovo a chiedermi: ma il fidanzamento è veramente solo questo? Beh, dal punto di vista del dizionario, il fidanzato/a è colui che incarna il/la promesso/a in matrimonio, ovvero che ha una relazione sentimentale stabile con qualcuno/a. Sulla scorta di questa definizione, allora, il fidanzamento (termine derivante dal latino “fidere”, cioè avere fede, fidarsi) può essere visto come un’intesa fra due persone che decidono di contrarre matrimonio, ovvero un vero e proprio contratto con valenze e diritti/doveri sociali, sanciti per mezzo di un contratto tra parti, avallato dal garante di questo patto, ovvero lo Stato (per i laici) e la Chiesa (per i credenti e praticanti una determinata ritualità religiosa definita tramite una Istituzione e incarnata nella sua Comunità). Stiamo qui parlando, quindi, di un insieme di ritualità (tra cui lo scambio di anelli) che sanciscono, innanzi agli Altri, la decisione di due individui di sposarsi, ovvero di procedere al rituale dello scambio di promesse tra due individui che diventano anche, socialmente, un terzo individuo: una coppia.
Il fidanzamento, pertanto, prende vita nel momento in cui si avviano tutta una serie di ritualità che coinvolgono non solo i due individui (i quali acquisiranno, poi, ruoli e funzioni reciproche: sposo/sposa, marito/moglie) ma anche il resto della società prossimale a cui loro stessi appartengono: le famiglie di origine.
La Promessa, lo “scambio degli anelli” e i riti di passaggio
Per l’ordinamento giudico italiano, comunque, non dobbiamo dimenticare che il fidanzamento rappresenta un semplice rapporto tra due persone, non correlato minimamente ad un eventuale rapporto di convivenza (cioè non basta vivere con una ragazza per poterla considerare la propria fidanzata… questa specifica vale per tutti gli studenti universitari fuori sede e loro famiglie), risultante privo di qualunque vincolo giuridico, a meno che non avvenga una vera e propria promessa di matrimonio, regolamentata dagli articoli 79, 80 e 81 del Codice civile italiano. Da un certo punto di vista, quindi, possiamo notare come tutto ruoti intorno alla “pubblicità” del rituale tradizionale per eccellenza che sancisce una promessa di matrimonio: lo scambio degli anelli.
Sembra allora che, in un certo senso, lo scrittore Moccia avesse proprio ragione: introdurre romanzescamente il rituale del lucchetto ha svincolato e dissipato una confusione adolescenziale che, forse, lui stesso ha vissuto, ovvero lo scambio delle “fedine” e l’idea che l’altro, dopo aver accettato il mio anello, diventasse cosa mia, il mio Tessssooro (immaginate una pronuncia alla Gollum de “Il Signore degli Anelli”).
Ma possiamo veramente dire che il noto Moccia ha raggiunto il suo ipotetico obbiettivo? Personalmente ritengo proprio di No. Una esigenza degli adolescenti e quella di poter uscire dal proprio guscio infantile e poter accedere al mondo “potente” degli Adulti. Ma come sancire questo passaggio? Nei cosiddetti “popoli arcaici” esistevano (e in alcune parti del mondo ancora esistono) ciò che poi è stato da noi definito con il termine “rito di passaggio”. Ebbene, lucchetti ed anelli hanno dato forma a tale rito di passaggio per le nostre evolute civiltà occidentali.

Ma tale scambio rituale può essere equiparato al rituale di andare a caccia ed uccidere la prima preda insieme al “gruppo di caccia”/branco del villaggio? Non dovremmo invece notare come le due cose sono profondamente diverse? Qualcuno forse potrà dirmi che il vero rito di passaggio dei nostri giovani è “l’esame di stato” che sancisce la conclusione delle scuole superiori e l’accesso (io direi il lancio troppo spesso incosciente) dei ragazzi e ragazze al mondo del lavoro. Altri forse penseranno al primo rapporto sessuale come accesso al mondo adulto ed alla responsabilità della procreazione. Beh, ma in entrambi questi casi stiamo parlando di passaggi quasi obbligati per “concludere” un percorso o dare spazio alle proprie “spinte” genetiche (per non dire genitali) verso la soddisfazione individuale o la costruzione del proprio futuro.
Nel mio ambito di competenza, la psicologia, troppo spesso mi ritrovo a dover constatare che gli ancestrali riti di passaggio si incarnano oramai nelle gravidanze per le donne e nel primo compenso economico dovuto ad una vendita oppure ad una attività subordinata per gli uomini (con conseguente responsabilità di pagamento delle utenze personali e preoccupazione per il proprio personale futuro). Quanto era di più importante per “l’animale sociale” uomo, ovvero il suo riconoscimento come elemento attivo e responsabile per sé e per gli altri nella propria comunità, è stato relegato ad una esperienza di trasformazione radicale della propria persona e del proprio individuale orizzonte di vita. Il resto, invece, è stato demandato ad un lucchetto e, precedentemente, alla pantomima scimmiottante della promessa di matrimonio sancita dallo scambio delle “fedine”. La solitudine dell’essere gettati nel mondo sociale degli adulti, veniva cioè calmierata dalla possibilità di condividere tale esperienza con un’altra solitudine umana attraverso l’acquisizione di un ruolo sociale riconoscibile: il fidanzato/a di mio figlio/a… tutto pur di prolungare il più possibile la propria esistenza nella sfera borderline della adolescenza, tra l’infantile e l’adultità.
Cosa ha comportato tutto questo per quanto concerne la nostra psiche individuale e sociale? Come tutte le volte che si evita o si controlla paurosamente una trasformazione inevitabile, tutto ciò ha portato a confondere i livelli di coppia con quello di famiglia. Con l’atto della promessa di matrimonio (quindi con il fidanzamento vero e proprio) si avvia difatti un processo simile a quello della gestazione: lo spermatozoo feconda l’uovo che porta alla nascita sociale di una nuova Famiglia. Ma prima dell’atto (riproduttivo o socio-contrattuale che sia) c’è pur sempre altro: la Coppia, l’incontro tra due persone, due individualità che iniziano a conoscersi liberamente, frequentando l’uno l’universo dell’altra, senza vincoli, senza necessità, senza appropriazione, possesso o appartenenza… due individualità che stanno “Insieme”, che costituiscono cioè una unità compatibilmente divisibile e confrontabile con altre individualità.
Tendiamo a pensare agli “Insiemi” come entità singolari complesse composte da individui tutti uguali o simili tra loro (da bambini ci insegnano che le mele vanno con le mele, le pere con le pere, etc.). Ebbene, l’insiemistica umana è fatta di insiemi intersecanti e uniti, ovvero di quella tipologia di insiemi che nascono dalle diversità e si uniscono per formare qualcosa che a me piace pensare appartenga ad un livello più alto di esistenza: un ente che è pur non essendo ancora incarnato in qualcosa di tangibile. Visto in questo modo, le relazioni umane e la crescita dell’individuo si manifestano attraverso “salti” di livello, espressioni intersecanti di Sé che attraversano il Multistrato Complesso (Guelfo Margherita, 2012) delle nostre esistenze psicologiche e non solo.
Pertanto, è la Famiglia che appartiene (insiemisticamente diremmo che è Inclusa), senza essere posseduta, alla Coppia che appartiene agli Individui che la sostanziano. Senza le fondamenta della Piramide la struttura non regge… perché un Generale non è niente senza i soldati che lo difendono; soldati che devono essere capaci non solo di eseguire degli ordini ma di sentirsi parte fondamentale del successo di ogni singola battaglia.
In conclusione: senza crescita personale e conoscenza di Sé la Coppia è fragile, il Fidanzamento una farsa e la Famiglia una entità che facilmente può smarrire il proprio Scopo e la propria volontà di esistenza…insomma, meno lucchetti, meno anelli e più fiducia in Noi stessi e nel nostro desiderio di farci conoscere e di conoscere l’Altro da Sé.
Salvatore Rotondi