di Salvatore Rotondi
Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I CARE”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori: “me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “me ne frego”. (Don Lorenzo Milani)
Avrei potuto titolare l’articolo di questo mese con la frase “Il mio punto di vista all’epoca della Didattica a Distanza”. Ma io non riesco mai ad essere Mainstream (come fa figo questo termine!) e poi sono un figlio del terremoto del 1980, quello che in tutta la Campania costrinse molti ragazzi e ragazze (nonché tutti i loro insegnanti) a fare totalmente a meno dell’istruzione statale per molti mesi e per anni a vivere con i doppi turni. Pertanto, ho deciso di porvi la mia riflessione sulle basi di qualunque dissertazione sugli argomenti suddetti (il mio spirito da epistemologo non mi abbandonerà mai…).
Personalmente ritengo difatti basilari concetti come “educare” ed “istruire”, poiché informano l’azione non solo di chi svolge professionalmente questo compito adulto e sociale (quindi educatori ed insegnanti, i quali non sempre sono individuabili nella stessa persona) ma soprattutto sono le fondamenta su cui si innalzano, nella vita di ognuno di noi, le opere esistenziali di vere e proprie Guide, ovvero i cosiddetti maestri e/o mentori.
Insegnante e Maestro
Educare, dal latino educare composto dalla particella E- e -Ducare (condurre, trarre fuori di), ovvero educere, tirare fuori, è un termine che intende indicare l’aiuto che, con opportuna disciplina, può essere svolto da alcune persone onde sviluppare le buone inclinazioni dell’animo e le potenze della mente degli altri, per poter così contrastare le inclinazioni istintuali che sono proprie della natura umana. Educare, quindi, significa condurre fuori l’essere umano dalla sua naturalità animale, instillando in esso abiti di moralità e di socialità (e non solo), anche attraverso processi di istruzione.

Difatti, istruire (dal latino instruĕre ‘fornire, preparare, istruire’, è composto di ĭn- e struĕre, ovvero collocare a strati, connettere) sta ad indicare il procedere, attraverso l’apprendimento, all’insegnamento organico, teorico o pratico, di una serie di nozioni relative sia a una materia (per lo più elementare come leggere, scrivere o far di conto) o a un’arte, sia all’esercizio di una particolare attività. Volendo essere più generici, con il termine istruire potremmo intendere l’informare, dare consigli, suggerimenti, particolarmente in riguardo a ciò che si deve fare, svolgere, impartendo elementi del sapere e in generale tutte quelle cognizioni, intellettuali, sociali, religiose e morali, che sono la base dell’educazione individuale o gruppale.
Sintetizzando i due termini, potremmo intravedere il profilo di quello che era ed è, tutt’oggi, il senso o, meglio, il mandato sociale di tutti gli operatori statali e non che indichiamo ai nostri figli come guide da seguire ed ascoltare, persone cioè capaci di giudicarli e/o permettere loro di svilupparne le potenzialità, attraverso l’apprendimento di conoscenze elementari, specifiche, generali, tecniche, artistiche, sportive, etc…sto parlando quindi del “maestro/a” (o, almeno, io li sentivo chiamare così ai miei tempi).
Tutto semplice, quasi scontato, non è vero? Beh, potrebbe sembrare così; eppure quanti di noi hanno esperienza di docenti (questo è il termine utilizzato nell’istituzioni formative) che sono stati, nella nostra vita, educatori ed istruttori (cioè didatti) allo stesso tempo? Chi ha avuto questa “fortuna”? A volte persone di questo tipo non si trovano all’interno delle mura scolastiche o dei centri di formazione (spostati oggi negli spazi virtuali della rete globale); a volte personaggi di questo tipo li abbiamo accanto senza accorgercene, oppure li incontriamo nelle vicissitudini della nostra vita, anche tra chi non possiede titoli statali o detiene posizioni di prestigio accademico. Sono quelli gli individui che mi sento di chiamare “maestri”.
L’etimologia della parola maestro, d’altronde, si ricollega al latino magister, che nasce a sua volta dall’unione di magis, cioè “grande”, più il suffisso comparativo -ter (voglio subito far notare che magister è contrapponibile a minister, ovvero “servitore”). Un maestro è cioè colui che conosce pienamente una qualche disciplina o ambito della conoscenza umana, così da possederla e poterla insegnare agli altri. Un termine che ha acquisito poi nel tempo, in particolare nel pensiero comune, la funzione di titolo di rispetto o appellativo di venerazione per coloro che sono visti come una guida e/o un capiscuola.
Maestro-Apprendista
Alla luce della definizione sopraesposta, quindi, mi sento di poter affermare che è allora possibile distinguere il “Maestro” dal semplice “maestro”. Questi ultimi infatti li troviamo ovunque, certificati dalle proprie istituzioni di appartenenza e delegati alla semplice trasmissione di competenze, conoscenze, tecniche certificabili ai propri allievi, i quali hanno il semplice compito di essere ingranaggi della macchina comunitaria e veicoli della trasmissione culturale-identitaria di una società. Il concetto di “Maestro”, invece, così come lo intendo io mi fa pensare alla leggenda del rapporto maestro-apprendista della cappella di Rosslyn (Scozia, 1400); un luogo carico, al suo interno, di simbolismi archetipici e massonici. Si narra infatti che, durante l’edificazione della cappella, il conte Sinclaire commissionò ad un mastro scalpellino la costruzione di una bellissima colonna. Nonostante i suoi sforzi, il mastro non riuscì a soddisfare l’esigenza del suo committente, nonostante avesse comunque realizzato una bella opera. Fu così che, con l’assenza del maestro, un suo apprendista cominciò a scolpire un’altra colonna, guidato da consigli ricevuti in sogno, creando una colonna che riuscì a soddisfare il conte. Quando il suo maestro tornò, accecato allora dall’invidia, colpì a morte l’apprendista. Le due colonne ora sono nella cappella, e una scultura che ricorda il maestro è stata posta rivolta verso la colonna del suo apprendista, come in una forma di condanna eterna alla visione dei suoi stessi limiti in quanto “maestro” e non “Maestro”.
Mi interessa sottolineare come questa leggenda richiami il significato simbolico delle colonne Jachin e Boaz poste all’ingresso del Tempio di Salomone, inteso così come la rappresentazione architettonica del Tempio dell’Esserci Umano e simbolo stesso della Vita. Booz equivale difatti al concetto di Forza (principio maschile) e Jachin invece equivale alla Stabilità (principio femminile). Solitamente la colonna posta a sinistra sostiene un globo terracqueo ed è incisa con la lettera “B” (iniziale di Boaz e nome del proavo di Davide, principe e legislatore di Israele); simbolicamente rappresenta nella tradizione gnostica la colonna degli apprendisti. La colonna opposta sorregge invece tre o quattro melagrane (simbolo di virtù, fecondità, umiltà, proliferazione) semiaperte (perché rappresentanti la virtù dell’introspezione, la “gnose te ipsum”, necessaria a tutti coloro che ricercano la Verità) e porta la lettera “J” (iniziale di Jachin, che nella tradizione biblica è il nome del gran sacerdote che inaugurò il Tempio); simbolicamente rappresenta la colonna dei Compagni d’Arte, ovvero dei maestri. Nella loro dinamica relazionale, quindi, tali colonne umane rappresentano l’equilibrio dinamico, cioè evolutivo, tra termini polarizzati: forza e stabilità, morte e vita, distruzione e creazione. È proprio in questa dinamicità che si esprime l’essenza di colui che io intendo definire come “Maestro”, ovvero colui che riesce nella creatività sognante (J) a restare sempre apprendista dell’esperienza (B), alla continua scoperta ed espressione del Sé, teso alla condivisione della verità.
Il Mentore
Ritengo pertanto che, nel mondo moderno, la figura avvicinantesi di più a tale concezione è forse solo quella del Mentore. Tale termine, infatti, indica principalmente la funzione di guida, ovvero l’azione di un consigliere fidato, saggio e paterno, per antonomasia (poiché è un termine che nasce dal nome proprio di un personaggio mitico), il precettore. Mentore (in greco antico Μέντωρ) è difatti un personaggio citato nell’Odissea, figlio di Alcino, amico di Ulisse che partì con lui per Troia. È a lui, infatti, che Ulisse affida il piccolo Telemaco. Non dimentichiamo, poi, che la dea Atena prenderà le sembianze di Mentore sia durante la Telemachia, per sostenere Telemaco durante la ricerca di suo padre e, poi, nello sterminio dei Proci, per infondere coraggio a Ulisse e sostenerlo nella battaglia. Quella del mentore è quindi una figura che, pur avendo la saggezza e l’esperienza di un maestro, non si presenta come gerarchicamente superiore a colui che assiste; guida difatti in modo discreto, sostenendo con cura il proprio protetto in qualità di consigliere, come Virgilio nel viaggio dantesco, come uno psicologo con il proprio paziente/cliente (scusate la digressione professionale ovviamente di parte).
Vi lascio infine con un’ultima domanda: dopo quanto detto, chi può dire con coscienza di aver incontrato nella propria vita il vero “Maestro”? Che forse esso sia quasi introvabile? Chissà, forse potrebbe essercene solo Uno, nascosto al di là degli Specchi di cui è composta la nostra vita sociale.
Salvatore Rotondi