di Salvatore Rotondi
“L’anno nuovo per magia
deponeva regali
la tristezza, l’allegria
ed i giorni normali
l’anno vecchio stava lì mento
in mezzo alle mani
come chi finito ormai
i domani e non sa perché…”
(Perché – Testo di Aleandro Baldi, Sanremo 1992)
Quando Fausto Leali, al Festival della canzone italiana di Sanremo del 1992, cantò “Perché”, una canzone scritta dal cantautore cieco Aleandro Baldi, il quindicenne che ero sentì un brivido lungo la propria schiena ed una profonda tristezza melanconica. Una delle cose che avevano contraddistinto i ricordi di chi mi aveva conosciuto da bambino era, come per molti bambini, quell’infinita sfilza di “perché…”, lanciati come boomerang contro quegli adulti che rispondevano alle mie domande e che davano da bere alla sete continua di conoscenza e rassicurazioni. Le domande che spesso investono gli adulti nascono infatti nella mente ansiosa dei giovani che, per una parte della loro vita, cercano radici e sicurezza nella ricerca delle proprie radici, dell’appartenenza a qualcosa di più grande: famiglia, comunità, città, nazione, cultura, etc.; ricerca che qui mi sento di formulare nel seguente modo: “A chi o a cosa appartengo? Perché?”. Come esseri fatti di Tempo, occupanti uno Spazio, apriamo la nostra esistenza guardandoci alle spalle grazie a chi era ed è, qui ed ora, prima di noi.
Insomma, prima del futuro, pensabile e forse impossibile, sembra esserci un passato sconosciuto e misterioso, che non riusciamo a vedere per mancanza di occhi dietro la nostra schiena. Non vediamo ma ne sentiamo sottilmente la presenza, come un’Ombra che cerca di comunicarci qualcosa e che nelle mancate risposte, nei silenzi degli adulti ai nostri perché, risuona come presagio, destino ineluttabile, a volte spaventevole.

È così che sento di riassumere il senso del trascorrere del Tempo: entità che camminano su di un percorso infinito e mai identico a sé, simile al nastro di Moebius…un percorso alla scoperta dei contenuti dimenticati, ma sempre immanenti, del nostro Inconscio. Nel tratto che ci è concesso di percorrere come individui, quel nastro ci intima di non perderci o “perdere tempo”, cercando ad esempio di non osservare quello che accade, ma soprattutto di non dimenticare di passare il testimone a chi verrà dopo di Noi.
Gli Antenati
Proprio questo, a mio avviso, è la funzione, presso tutte le civiltà umane, del culto degli antenati: “testimone immortale” e “protezione nel viaggio terreno” degli individui che ricercano loro stessi. Mani, Vesta, Lari e Penati erano difatti, presso i Romani, i sacri protettori della famiglia e dei suoi componenti. In particolare, profondamente certi dell’immortalità dell’anima, i romani si erano convinti che le anime dei morti, o meglio i Mani e i Lemuri, ritornassero sempre alle loro case.
I Mani, quindi, ritornavano in famiglia, attraverso evocazioni particolari, per assicurare il loro sostegno e la loro benevolenza come fedeli custodi della loro casa d’origine; erano cioè divinità buone e come Vesta, i Lari e i Penati, anche essi erano considerati divinità protettrici del focolare domestico e oggetto di culto sia in ambito familiare che comunitario. I Lemuri, invece, erano le anime degli antenati defunti non considerate benevole, ma ostili per qualche mancanza a loro riguardo e, proprio per questo, si tenevano lontani con determinate cerimonie. Nella sua opera Fasti, ad esempio, Ovidio raccontava che, in specifici giorni di maggio, le porte dei templi restavano chiuse, mentre il pater familias recitava, a casa propria, formule di scongiuro e lanciava per nove volte alle proprie spalle piccole manciate di fave nere, per liberarla appunto dai Lemuri.
Nel caso dei Mani e dei Lemuri riecheggiano alcuni concetti come il compito affidato alla propria genia (l’orgoglio e l’essenza dell’appartenenza ad una famiglia) oppure i non detti, le tragedie non elaborate della famiglia che, transgenerazionalmente, si tramandano da genitori a figli. Pensiamo quindi, quanto questi concetti quasi archetipici hanno indirizzato le opere di autori come, ad esempio, Eduardo De Filippo (pensiamo alle vicende della commedia “Non ti pago”) oppure a Giovanni Verga (con “I Malavoglia” e “Mastro Don Gesualdo”). Come per le famiglie, così per la comunità. Come in basso così in alto. E difatti entità protettive simili, come funzione, le ritroviamo proteggere comunità e nazioni.
La dea Vesta, ad esempio, venerata nell’antica Roma, richiama etimologicamente la dea greca Estìa (che in greco significa “focolare”, “famiglia”); quest’ultima, figlia di Crono e di Rea (quindi sorella di Zeus), secondo il mito decise di non sposarsi mai e di restare per sempre vergine, pur di non concedersi ad uno dei suoi pretendenti, onde scongiurare il pericolo di scatenare così una guerra tra coloro che poi si sarebbero sentiti rifiutati. L’importanza di questa dea, presso i Greci e non solo, era così connessa col legame profondo che univa tutte le stirpi di una stessa nazione: quelli che andavano a colonizzare terre straniere, come simbolo del legame che mantenevano vivo con la madrepatria, portavano con sé il fuoco dell’altare pubblico eretto in onore della dea. D’altronde, nell’antica Roma, Il tempio principale della dea Vesta era una piccola costruzione a pianta circolare nel Foro romano fatto costruire, secondo la tradizione, dal re Numa Pompilio (715-673 a.C.). La forma rotonda di tale tempio probabilmente riproduceva, secondo gli storici, le capanne dei primi abitanti di Roma.
Anche i Lari, dèi di origine etrusca, rappresentavano i protettori della casa; erano, probabilmente, gli antenati benemeriti della famiglia, in quanto accrescitori del suo prestigio. Venivano rappresentati come giovani bellissimi e sorridenti (un po’ come il “l’anno nuovo” nel testo della canzone sopracitata) che, con la loro gradevole immagine, confortavano chi si rivolgeva a loro con devozione. Le immagini dei Lari erano così collocate proprio all’ingresso della casa, dove si poteva trovare il larario, cioè un tabernacolo o una cappella presso cui era raffigurato un cane, simbolo della custodia dei beni della casa.
I Penati erano, infine, le divinità domestiche tutelari della dispensa e degli alimenti, ma anche dell’unione della famiglia; erano rappresentati con una statuetta di terracotta (che veniva lasciata in eredità al futuro capofamiglia) posta nel penitus, la parte più interna della casa, dove era collocata appunto la dispensa.
Tutti i momenti significativi della vita di una famiglia o della comunità venivano così svolti innanzi alle statuette dei Lari e dei Penati: nascite, morti, alleanze e momenti pubblici. Le statuette che li rappresentavano venivano circondate di fiori e il capofamiglia officiava preghiere e riti specifici per chiedere protezione; ad esempio, venivano ad essi offerte piccole porzioni di cibo della festa o dell’evento per rappresentare la loro stessa partecipazione ad esso. Infine, lo Stato Romano stesso, in quanto famiglia allargata, aveva i suoi Lares e Penates pubblici a cui venivano consacrati, in alcune vie e in alcuni rioni, degli altari, affiancati da focolari perennemente accesi e curati dalle vestali.
Il Passato nel Presente
A chi sta leggendo queste parole non sarà difficile riconoscere tanti aspetti che ancora oggi resistono nelle città meridionali dell’Italia e non solo. Gli altarini che si incrociano in alcuni vicoli di Napoli o di Palermo, ad esempio, per non parlare della stessa Roma, ci ricordano delle nostre inconsce radici collettive che, nei secoli, hanno mutato forma ma non sostanza, trasformandosi fantasmaticamente dal paganesimo al culto di antenati, santi, personaggi illustri…e chissà, forse un giorno in quello di youtuber o influencer.
Questo afflato verso le proprie radici, verso la ricerca e la risposta agli infiniti perché, lo ritroviamo anche a centinaia di migliaia di chilometri di distanza. Ad esempio, in Giappone, il culto degli antenati (familiari o collettivi) ricorda tantissimo quello delle nostre radici greco-romane. Nella terra del Sol Levante, infatti, le celebrazioni o culto dei defunti dura tre giorni, dal 13 al 15 agosto, e prende il nome di “O Bon”; sono questi giorni di festa, durante i quali la gente torna nei luoghi natii e visita e pulisce le tombe dei propri antenati. Tale azione è giustificata dalla credenza secondo la quale gli spiriti degli antenati rivisitino i luoghi dove hanno vissuto, le loro tombe, gli altari domestici e le case dei loro discendenti (pensiamo ad esempio al nostro 2 di novembre). Proprio per questo, i giapponesi hanno l’abitudine di pulire completamente la casa e prepararsi come se si aspettassero degli ospiti. Bisogna sottolineare che l’espressione completa per “O Bon” è “Urabon-e”; tale termine, infatti, deriva da “Ullabana“, un’antica parola indiana che indica la cerimonia eseguita da Shakyamuni Buddha per la madre deceduta di Maudgalyayana, uno dei suoi diretti discepoli. La leggenda vuole che in un giorno di agosto il monaco Maudgalyayana ebbe la visione della madre defunta. Nella visione questa era sofferente per la fame. Maudgalyayana prese la decisione di alleviare il dolore della madre portandole cibo e bevande sulla tomba. Felice per aver liberato la madre da queste sofferenze, Maudgalyayana iniziò una danza di gioia. Da questa danza deriva il Bon Odori o “Danza Bon“, un momento in cui vengono ricordati gli antenati e i loro sacrifici. Una scena, questa, che è richiamata in molti anime (cartoni animati) giapponesi: alla fine della giornata festiva, la sera, molti giovani si ritrovano a ballare attorno ad un fuoco, con canti scanditi dal suono di un tamburo.
Non dobbiamo comunque dimenticare che il termine Ullabana significa letteralmente “essere appeso a testa in giù”. La leggenda vuole, difatti, che la sofferenza per la perdita della persona cara e la fatica per la lunga danza intorno al fuoco, fosse così intensa da essere paragonata a quando si è costretti a stare appesi a testa in giù. Ancora una volta riecheggiano nella memoria riti simili e momenti simili della storia dell’umanità (ad es. la crocifissione a testa in giù di San Pietro), nonostante distanze geografiche e culture tra loro anche molto differenti.
Ad oggi, forse, possiamo intravedere le forme di nuovi riti, nuovi miti, a volte da richiamare, a volte da scacciare…desideri e paure come facce della stessa medaglia. E così che l’immaginazione, per rispondere ai nostri perché, crea scientifici mostri di laboratorio, microscopici, e allo stesso tempo chiede alla scienza stessa di risolvere gli eventuali problemi che ha creato. Deleghiamo a forze incomprensibili la risoluzione della nostra individuale impotenza…perché, come sempre, qualcosa finisce per poter ricominciare in qualche altra forma. L’individuo è così costretto ad affidarsi a qualcosa che, nella sua caducità, non può conoscere ma solo comprenderne il senso, chiarendo sé stesso attraverso la propria vita, la propria esperienza.
È così che mi sovvengono le parole che il registra Christopher Nolan, nel suo film “Interstellar” (2014), attribuisce al dialogo tra una figlia e suo padre prima della sua partenza, per una missione la cui conclusione non si sa quando ci sarebbe stata. L’uomo riporta così le parole della madre defunta della piccola, che lui fino ad ora non aveva ancora compreso. Come le stelle e come gli antenati, come gli anni che passano e volgono lo sguardo all’nuovo anno che sta per arrivare, così i genitori sono il fantasma del futuro dei propri figli. Ed allora quale è il senso dell’esistenza di un figlio: comprendere la vita del genitore per superarne i limiti e creare nuove strade, nuova speranza… in caso contrario avremo un eterno ritorno del simile per il simile, fino alla sua naturale consunzione e annichilimento.
Ci accingiamo allora, durante questo periodo di festività, a lasciare andare il vecchio anno, un anno carico di paure e di incertezze, aprendo le braccia ad un anno nuovo, quanto mai vuoto ci certezze. Eppure, nonostante tutto il dolore che ha elargito questo anno che sta finendo, non possiamo evitare (come si fa per i nostri antenati, nonostante gli errori e gli orrori che ci hanno lasciato in eredità) ed esimerci dal ringraziarlo per gli eventuali insegnamenti che ci lascia: riflettere su noi stessi, come individui e come comunità umane, per comprenderne il Senso del nostro esistere e la caducità del nostro esserci, le cui conseguenze lasciamo a chi verrà dopo di Noi.
Come dicevo ai miei colleghi universitari durante il mio periodo di attivismo politico accademico, bisogna in ogni cosa che facciamo e costruiamo “preventivare la vostra morte, sempre”… perché? Affinché le nostre opere possano, nel bene, sopravvivere alla caducità e fragilità dell’umana esistenza.
Salvatore Rotondi
“Deleghiamo a forze incomprensibili la risoluzione della nostra individuale impotenza…perché, come sempre, qualcosa finisce per poter ricominciare in qualche altra forma. L’individuo è così costretto ad affidarsi a qualcosa che, nella sua caducità, non può conoscere ma solo comprenderne il senso, chiarendo sé stesso attraverso la propria vita, la propria esperienza.” 🤔
Le forze incomprensibili sarebbero gli dei? Perché l’uomo sarebbe impotente? Come puoi comprendere il senso di qualcosa che non conosci?