La tortura esiste


di Federico Iossa

Federico Iossa, nasce a Napoli l’11.07.1973. Iscritto all’Albo degli avvocati dell’Ordine di Napoli, è specializzato in Diritto penale minorile, Diritto penale di Impresa, Diritto penale di internet e nuove tecnologie, Diritto penale finanziario, Reati contro la P.A, Reati ambientali, Diritto sportivo. Attualmente collabora con alcune riviste giuridiche, nonché quotidiani on line, ed è Componente della Commissione Penale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli.

È di alcuni giorni fa la notizia che un agente in servizio presso il carcere di Ferrara è stato condannato per il reato di “tortura aggravata”, in quanto commessa da un pubblico ufficiale. Dopo l’introduzione del reato di tortura nel codice penale ci sono state alcune condanne per tortura “ordinaria”, fra privati, e c’è stata la condanna di tre persone per maltrattamenti inflitti ai migranti quando erano detenuti in Libia. Di tortura sono accusati i protagonisti di vicende avvenute in diverse altre carceri italiane, ma i procedimenti sono ancora in corso. È questa, dunque, una prima volta.
Per molti anni, negare l’esistenza della tortura nel nostro paese  – e dunque non prevederla come reato – è servito a non punirla. Dopo i fatti di Genova del 2001, ma anche in altre occasioni, i giudici hanno accertato i fatti e hanno scritto che si trattava di tortura. In mancanza di un reato specifico, hanno incriminato i responsabili per reati generici, punibili con pene lievi. Quei reati sono andati in prescrizione e i responsabili (quelli che è stato possibile identificare) non sono stati puniti. Per questo motivo, per l’impunità, oltre che per le torture in sé, l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e, dovendo eseguirne le sentenze, ha finalmente introdotto il reato di tortura.
Molte sono state le associazioni che hanno sostenuto l’introduzione di una figura specifica di reato, quali Amnesty International Italia, così come Antigone, nella consapevolezza che tale traguardo  costituisse un passo in avanti, un contributo a porre fine alla rimozione della tortura, pur riconoscendo i limiti  della sua definizione. Si faceva affidamento, del resto, sul fatto che i giudici avrebbero potuto correggere alcuni difetti di questa, interpretando la norma in maniera conforme al diritto internazionale.

All’esito di un lungo e complesso iter parlamentare, con la legge n. 110 del 2017 sono così stati introdotti nell’ordinamento i reati di tortura e di istigazione alla tortura.

Gli atti internazionali

Numerosi atti internazionali affermano che nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti: tra gli altri, la Convenzione di Ginevra del 1949, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra; la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 (ratificata dalla L. 848/1955), la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 (ratificato dalla L. 881/1977), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000, la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumani e degradanti (la cd. CAT), ratificata dall’Italia con la legge n. 489/1988; lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale del 1998 (L. 232/1999). La maggior parte di tali atti si limita a proibire la tortura ma non ne fornisce una specifica definizione.
In particolare, la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura, ratificata dall’Italia con la legge n. 498/1988, prevede l’obbligo per gli Stati di legiferare affinché qualsiasi atto di tortura sia espressamente e immediatamente contemplato come reato nel diritto penale interno (articolo 4). Per tortura ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della Convenzione si intende “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso, o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate“. Nella CAT, quindi, la specificità del reato di tortura è individuata e saldamente agganciata alla partecipazione agli atti di violenza, nei confronti di quanti sono sottoposti a restrizioni di libertà, di chi è titolare di una funzione pubblica. La tortura è ivi individuata come reato proprio del pubblico ufficiale che trova la sua specifica manifestazione nell’abuso di potere, quindi nell’esercizio arbitrario ed illegale di una forza legittima. Per quanto riguarda poi l’elemento soggettivo-psicologico del reato, sono richiesti al pubblico ufficiale due requisiti: il perseguimento di un particolare scopo, ossia ottenere dalla persona torturata (o da una terza persona) informazioni o una confessione; il dolo nell”infliggere dolore e sofferenze (uso dell’avverbio intenzionalmente). In base alla Convenzione, questi ultimi elementi (di natura oggettiva) non debbono, tuttavia, essere di lievi entità: le condotte di violenza o di minaccia per connotare il reato devono cioè aver prodotto sofferenze “forti” a livello fisico e psichico. L’ultima parte della definizione di tortura contenuta nella CAT si prefigge l’obbiettivo di escludere dalle azioni proibite quegli atti che derivano dall’applicazione di sanzioni legittime, quindi previste dalla legge. In questo modo, gli autori della Convenzione hanno voluto proteggere gli Stati dall’essere condannati a livello internazionale per il normale funzionamento del loro ordinamento giudiziario e carcerario. Il comma 2 dell’art. 1 lascia impregiudicato ogni strumento internazionale e ogni legge nazionale che contiene o può contenere disposizioni di portata più ampia.

IL REATO DI TORTURA

Come suddetto, all’esito di un articolato iter parlamentare, l’articolo 1 della legge n. 110 del 2017 ha introdotto nel codice penale – TITOLO XII (Delitti contro la persona), sez. III (Delitti contro la libertà morale) – i reati di tortura (art. 613-bis) e di istigazione alla tortura (art. 613-ter), connotando l’illecito in modo solo parzialmente coincidente con la Convenzione ONU del 198 che, in particolare, definisce la tortura come reato proprio del pubblico ufficiale.
L’articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
Rispetto all’art. 1 della Convenzione ONU del 1984, che prevede una condotta a forma libera da parte dell’autore del reato, l’art. 613-bis prevede esplicitamente che la tortura si realizza mediante violenze o minacce gravi o crudeltà (ovvero con trattamento inumano e degradante).
La necessità della pluralità delle condotte (violenze o minacce) non sembra, quindi, consentire di contestare il reato di tortura in presenza di un solo atto di violenza o minaccia. Peraltro, dalla formulazione del testo si realizza il reato di tortura anche qualora si sia determinato un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. In tale ultima ipotesi, per la contestazione del reato, si dovrebbe prescindere dalla pluralità delle condotte. 

Sono poi previste dall’art. 613-bis  fattispecie aggravate del reato di tortura:
1) la prima, conseguente all’opzione del delitto come reato comune, interessa la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio dell’autore del reato, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio; la pena prevista è in tal caso la reclusione da 5 a 12 anni (era da 5 a 15 anni nel testo Camera). Viene, tuttavia, precisato dal terzo comma dell’art. 613-bis che la fattispecie aggravata non si applica se le sofferenze per la tortura derivano unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti;
2) Il secondo gruppo di fattispecie aggravate consiste nell’avere causato lesioni personali comuni (aumento fino a 1/3 della pena), gravi (aumento di 1/3 della pena) o gravissime (aumento della metà). Il Senato ha precisato che anche tali fattispecie aggravate derivano “dai fatti” indicati dal primo comma e non “dal fatto” quindi, anche in questo caso, il reato aggravato si perfeziona solo in presenza di una pluralità di azioni;
3) le altre fattispecie aggravate riguardano la morte come conseguenza della tortura nelle due diverse ipotesi: di morte non voluta, ma conseguenza dell’attività di tortura (30 anni di reclusione, mentre nel testo della Camera era previsto l’aumento di due terzi delle pene); di morte come conseguenza voluta da parte dell’autore del reato (pena dell’ergastolo). Anche in questo caso, Il Senato ha precisato che tali fattispecie aggravate derivano “dai fatti” indicati dal primo comma.

IL REATO DI ISTIGAZIONE ALLA TORTURA

La legge 110 introduce, poi, nel codice penale l’art. 613-ter con cui si punisce l’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura. In particolare, è prevista la reclusione da sei mesi a tre anni per pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso.

Disposizioni processuali

Viene introdotta dalla legge una disposizione procedurale che – novellando il codice di procedura penale –  stabilisce l’inutilizzabilità, nel processo penale, delle dichiarazioni eventualmente ottenute per effetto di tortura. La norma fa eccezione a tale principio solo nel caso in cui tali dichiarazioni vengano utilizzate contro l’autore del fatto e solo al fine di provarne la responsabilità penale.

La modifica del testo unico immigrazione

La riforma coordina con l’introduzione del resto di tortura l’art. 19 del testo unico immigrazione (d.lgs. 286/1998): sono così vietate le espulsioni, i respingimenti e le estradizioni ogni volta che sussistano fondati motivi di ritenere che, nei Paesi nei confronti dei quali queste misure amministrative dovrebbero produrre i loro effetti, la persona rischi di essere sottoposta a tortura. La disposizione – sostanzialmente aderente al contenuto dell’art. 3 della Convenzione ONU –  precisa che tale valutazione tiene conto se nel Paese in questione vi siano violazioni “sistematiche e gravi” dei diritti umani.

Il limite alle immunità diplomatiche e l’estradizione

L’articolo 4 della legge n. 110 del 2017 esclude il riconoscimento di ogni “forma di immunità” per gli stranieri che siano indagati o siano stati condannati  per il delitto di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale (comma 1). L’immunità diplomatica riguarda in via principale i Capi di Stato o di governo stranieri quando si trovino in Italia nonché il personale diplomatico-consolare eventualmente da accreditare presso l’Italia da parte di uno Stato estero.
Viene poi previsto l’obbligo di estradizione verso lo Stato richiedente dello straniero indagato o condannato per il reato di tortura; nel caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, lo straniero è estradato verso il Paese individuato in base alla normativa internazionale.
Per di più, il criterio della pluralità delle violenze o minacce spinge a qualificare la tortura, allorché sia posta in essere con tali modalità, come reato abituale, per la cui integrazione è necessaria la reiterazione di più condotte nel tempo, sebbene, da altra prospettiva, la previsione normativa di cui all’art. 613-bis c.p. sancisce che il fatto comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità dell’individuo. Ebbene, proprio la presenza di questo requisito sembra essere dirimente per permettere di configurare la tortura in presenza anche di un unico atto di crudeltà.
In merito, secondo la dottrina maggioritaria, è irrazionale che nel dettato dell’art. 613-bis c.p. il trattamento inumano e degradante sia ipotizzato in modo alternativo alla pluralità delle condotte, come se ci fossero torture non inumane né degradanti per la dignità umana. Peraltro, pure per tale parametro valgono le censure di eccessiva indeterminatezza che determinano una violazione al principio costituzionale di precisione.
In luogo all’utilizzo di violenze o minacce gravi, il reato in commento può essere commesso “agendo con crudeltà”. In riferimento a quest’ultimo profilo le Sezioni Unite del Supremo Consesso con la decisione del 23 giugno 2016, n. 40516 hanno chiarito che: “La circostanza aggravante dell’avere agito con crudeltà, di cui all’art. 61, n. 4, c.p., è di natura soggettiva ed è caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole”.

L’evento del reato è espresso dalle acute sofferenze fisiche o da un appurabile trauma psichico.
È giusto rilevare, altresì, che la norma in commento non ricomprende nessuna indicazione in merito all’elemento soggettivo e, ad ogni modo, trattandosi di un delitto, l’imputazione sarà a titolo di dolo generico.
Per la fattispecie di cui all’art. 613 ter, si è al cospetto di un reato proprio che può essere realizzato unicamente dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio. La punibilità dell’istigatore, in ipotesi di istigazione non accolta ovvero di istigazione accolta, ma non seguita dalla commissione del crimen, rappresenta una deroga al principio generale di cui all’art. 115 c.p.
In conclusione va detto che l’introduzione degli artt. 613-bis e 613-ter c.p. possa essere qualificata come un’evoluzione di carattere positivo sul terreno politico-culturale.  Una circostanza importante nella prospettiva del consolidamento della cultura dei diritti umani e della lotta avverso l’impunità per gravi infrazioni di questi ultimi.
Pertanto, in merito al rischio di una possibile strumentalizzazione del reato di tortura, anche in ambito penitenziario, va notato che il deficit di determinatezza della fattispecie di cui all’art. 613-bis c.p. è così elevato che è fondato il pericolo di una sua inapplicabilità.
La stessa Corte di Cassazione ha neutralizzato i punti più critici della legge richiamando la giurisprudenza di Strasburgo. Ora, la prima condanna di un pubblico ufficiale dimostra che contro gli abusi di potere si può fare affidamento sulla legge e sui giudici. Si può chiamare la tortura con il suo nome anche in sede giudiziaria, senza doversi nascondere dietro gli eufemismi. In questa ottica, il reato di tortura si sta rivelando uno strumento utile, per quanto imperfetto, nell’affrontare quegli ostacoli.
Un passo avanti importante nel cammino dei diritti umani.

Federico Iossa

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