di Salvatore Rotondi
“Io sono single perché sono nata in questo modo.”
(Mary Jean West, Attrice)“Soltanto quando è solo (cioè: solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la propria vita personale”
(D. W. Winnicott, Capacity to be Alone, 1958)
Meglio soli che male accompagnati
“Meglio soli che male accompagnati”, diceva un antico proverbio italico, le cui origini sono difficili da ritrovare. In Inglese si dice “better alone than badly accompanied” e, solitamente, è un detto attribuito addirittura a George Washington. Al di là della individuazione delle origini di questo detto comune, è più che evidente la sua utilità quando lo si usa per dare senso, post hoc, alle proprie scelte di distanziamento sociale (qui il termine, a differenza della comunicazione mainstream sulle precauzioni onde arginare la diffusione del coronavirus Sars-Cov2, penso ci stia più che bene).
Ma perché un individuo dovrebbe scegliere il distanziamento sociale? Beh, dal detto è evidente: evitare le cattive compagnie! Ecco, ora mi sovviene un’altra esperienza, solitamente adolescenziale, che quasi tutti noi abbiamo fatto, ovvero la frequentazione di quelle “cattive compagnie” che i nostri genitori ci dicevano di evitare. Chi non ha sentito dire “Quello era un bravo ragazzo; è stata tutta colpa delle cattive compagnie”? Se penso alla mia infanzia ed adolescenza, mi vengono in mente una serie di casi di cronaca criminale dove, nell’opinione pubblica, era più che evidente che se solo non si fossero frequentate quelle “cattive compagnie” sicuramente i giovani assassini non avrebbero operato quegli efferati delitti.
Le persone tendono, con tali forme di pensiero cristallizzate in proverbi e motti anche di spirito, a tutelare sé stesse e la propria identità di appartenenza (o di convinzione di appartenenza) ad uno specifico gruppo sociale, onde sentirsi meno sole innanzi alle vicende della Vita ed alle sfide che la Natura (in tutte le sue forme, anche culturali) ci pone innanzi.
Sentirsi Soli e scegliere di essere “single”
L’essere umano si sente solo, heideggerianamente “gettato” in questo Mondo dell’Essere. Nella solitudine trova così conforto attraverso la consapevolezza di non essere il solo a provare tutto questo. Un paradosso? Forse sì e forse no. D’altronde, anche parlandone comunemente, essere single o essere soli sembra fare una grandissima differenza.
Fino a qualche decennio fa (per non parlare del fatto che fino ad un secolo e mezzo fa per le donne) era una vera e propria tragedia ritrovarsi, ad una certa età, “single”. Tale termine, tratto nella nostra lingua dall’inglese, è sempre più stato utilizzato per indicare una “scelta” (più o meno consapevole e/o legata ad appartenenze gruppali) individuale di non stare (amo più utilizzare questo verbo rispetto ad “essere”) in coppia con un altro essere umano. Il Single, cioè, era ed è colui che rappresenta l’altra faccia della moneta relazionale umana; pensiamo al lancio di una moneta: cosa scegli? Testa o Croce? Single o Coppia? Per qualcuno la propria realtà relazionale è o è stata una vera e propria scommessa con il destino…tale prospettiva mi sembra totalmente diversa dall’idea del proverbio da cui siamo partiti. Non c’è né un bene né un male ma, semplicemente, una scelta più o meno consapevole…ma, a volte, quanto male fa una tale scelta?
Ecco, ora ci troviamo faccia a faccia con la paradossalità dell’uso di questi termini. O meglio, il paradosso tra la loro origine e l’utilizzo/senso che il pensiero comune dona loro. Single, come anche il termine solo, stanno etimologicamente ad indicare l’unicità, l’indivisibilità di un qualcosa. Io osservo un oggetto, quello specifico oggetto, in tutte le sue peculiari caratteristiche, in tutta la sua Unicità e Irriproducibilità Individuale: esso mi appare in tutta la sua singletudine, in tutta la sua solitudine.
E fino a qui nessun problema. I problemi però nascono quando trasliamo tale unicità ed indivisibilità individuale (ben evidente a chi, da lontano, osserva un neonato mentre viene posto nelle braccia di sua madre) alla natura relazionale dell’essere umano, alla sua naturale (secondo Hegel, alla sua seconda natura) tendenza a costruire relazioni con l’Altro da sé, ovvero con Altre Unicità.
Ebbene, questa traslazione di significato porta con sé il massimo della confusione possibile: l’Unicità ed Indivisibilità passa dalla mia Solitudine alla Relazione con l’Altro che, così, diventa per me quasi più Importante di Me stesso. Si tende, così, a rendere nel Tempo cronologico (quello misurabile attraverso gli orologi), con la speranza che diventi Eterno (Tempo dell’Aion), quello che invece appartiene all’Attimo in sé, al Tempo cairologico (la divinità Kairos indicava appunto il “momento giusto o opportuno” o “momento supremo”).
La coppia e il desiderio dell’abbraccio “originario”
È così che, memori inconsciamente di un momento supremo come quello delle braccia di nostra madre (o di chi ci ha profondamente ed empaticamente voluto bene sin dalla nostra nascita), ricerchiamo continuamente quell’Attimo. La rappresentazione della “Madonna con bambino” di tantissime scuole di pittura rinascimentale stanno appunto ad indicare quel desiderio, quell’afflato a cui tutti noi aneliamo: l’unicità di quella diade madre-bambino traslata nel rapporto relazionale di coppia…una coppia che vorremmo fosse Eterna.
Volendo tenere per assodato e incontrovertibile il fatto che la Relazionalità di Coppia tra due individualità è la cosa più palesemente fragile di questo Mondo terreno (nonostante le ritualità che ancora oggi si ripresentano ai nostri occhi con i festeggiamenti per i 25, 50 o più anni di matrimonio di nonni e bisnonni), perché molti di coloro che scelgono di Essere/Stare Single (ovvero il riconoscersi prima di tutto come Unicità Individuali) soffrono per la sensazione di Essere Soli? Beh, buona parte della risposta la possiamo ritrovare nelle parole di cui sopra, ma se volessimo fare una sintesi del tutto potremmo dire: a causa del fatto che si ritiene desiderabilmente unica ed univoca l’Essere/Stare in Coppia (quindi, la Relazione in Sé), nonostante tale Unicità relazionale sia qualcosa di spaventevolmente pericolosa per l’Unicità dell’Individuo.
Qui ci ritroviamo, nuovamente, davanti all’enigma: chi viene prima? L’Uovo o la Gallina?…in un certo senso, lo abbiamo trasformato in: chi viene prima? La Relazionalità di Coppia o la Nostra Peculiare Individualità (dalla nostra nascita sino alla nostra morte)? Nella mia esperienza clinica ho spesso incontrato la Paura profonda di chi anela ad un Abbraccio vero, carico di sentimento; una paura angosciata al pari di un desiderio viscerale, alla fame o alla sete propria di chi sta asceticamente a digiuno: la Paura di Perdersi nell’Altro.
Aneliamo all’Abbraccio Infinito di nostra Madre ed allo stesso tempo lo temiamo, come se fosse l’origine della perdita di Noi stessi. Se quindi Essere Single significa, nel pensiero comune, Stare da Soli (dimensione relazionale del concetto), non mi sembra errato ritenere che ciò non determina automaticamente l’Essere Soli.
Come sosteneva lo stesso D. W. Winnicott citato all’inizio di questo scritto, Essere Soli, ovvero acquisire la capacità di individuare sé stessi anche se immersi in un fiume di persone (l’Umanità), non è uno status al quale si viene condannati o ci si autocondanna, ma è l’abbracciare finalmente sé stessi per quello che si è, ritrovandosi e ritrovando in sé, facendolo proprio, quell’abbraccio ora eterno di Colei che ci ha messo al Mondo e, nonostante anche sé stessa e la propria limitata umanità, ci ha Amato per avviare quel processo che è la Vita: apprendere, attraverso l’Esperienza, che Amando e Rispettando profondamente noi stessi forse, un giorno, saremo in grado di Amare e Rispettare chi è Oltre Noi, l’Altro sempre sconosciuto ma, allo stesso tempo, Uguale ad ognuno di Noi nel Crogiuolo dell’Esistenza.
Salvatore Rotondi