di Salvatore Rotondi
“Un uomo che non perde la ragione per certe cose, non ha una ragione da perdere.”
(Gotthold Ephraim Lessing)
“La società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia.”
(Franco Basaglia)
“Il poeta vi racconterà sempre la sua verità da un altare di follia.”
(Antonio Aschiarolo)
La Follia all’origine della Rinascita
Ricordo che nella mia infanzia il mese di marzo rappresentava un po’ lo spartiacque tra una parte dell’anno e quella successiva. In un certo senso era proprio quel confine sul quale si costruiva la “mezza stagione”. Tra il sole primaverile e le piogge che preparavano il terreno per la semina, questo mese pazzerello invitava alla rinascita, alla riscoperta di sé, del proprio corpo, del rapporto con l’ambiente che si risvegliava, ritornando a riempirsi di colori ed odori. Ricordo la sensazione di Gioia e Dolore, nella mia infanzia, legati a questo periodo: si aveva più voglia di stare insieme e, allo stesso tempo, si vivevano i primi confronti con gli altri, la scoperta delle differenze reciproche (che oggi chiamerei “Unicità” individuali) e le delusioni di non essere compresi nei propri gesti e sentimenti. Questi ultimi, difatti, venivano spesso etichettati come strani, a volte fuori dalle righe, forse anche illogici. D’altronde, chi nella vita non ha mai fatto una “Follia”? Paradossalmente, se ci guardiamo profondamente dentro, quelle follie hanno comunque sempre avuto un Senso, uno Scopo, una “Ragione”. Insomma, un po’ come questo mese di marzo, un po’ pazzo prima della rinascita primaverile.
Ragione e sentimento
Pensandoci bene su, il termine “Ragione” deriva dal latino “ratio”, ovvero calcolo o rapporto; fu usato da Cicerone per tradurre la parola “Logos”, assumendo così anche il significato di discorso. D’altronde, tutti noi ci riferiamo sempre ad un pensiero adeguato, cioè ragionevole, equiparandolo ad un discorso logico. L’originario significato di ragione come discorso lo si ritrova difatti nell’antico modello argomentativo della geometria di Euclide, il quale, facendo uso di premesse iniziali per giungere a delle conclusioni, si serviva poi di queste ultime come premesse per ulteriori conclusioni. Insomma, una concatenazione o sequenza di infinite premesse conclusive geometriche (quindi spaziali) capaci di portare chi ragionava ad incidere sul mondo che lo circonda. A partire da Aristotele in poi, possiamo ad oggi individuare quelli che possono essere visti come tre tipologie di ragionamento: deduttivo (che procedono dal generale al particolare), induttivo (che procedono dal particolare al generale), adduttivo (che, secondo il filosofo Charles Peirce, procede dalla migliore informazione disponibile alla migliore spiegazione possibile). Dobbiamo comunque sottolineare come, per lo stesso Aristotele, la vera ragionevolezza fosse depositata solo nella deduzione. Difatti, lui tendeva a distinguere la semplice ragione (da lui chiamata diànoia), dall’intelletto (o noùs), ovvero quella capacità di cogliere la verità delle premesse dalle quali scaturirà la dimostrazione, grazie ad un atto intuitivo (di natura extra-razionale ma non per questo irrazionale) capace di astrarre l’essenza universale della realtà da singoli casi particolari (la cosiddetta epagoghé). Partendo da quello che si è appena detto, non mi sembra errato ritenere che l’intuizione sia quasi originaria di qualsiasi dialogo ragionevole.
Nei secoli, nonostante l’Aristotele sopradescritto, il termine “ragione” è stato comunque sempre più associato a quella facoltà umana che oggi chiamiamo “intelletto”, ovvero quella capacità dell’individuo di esercitare il pensiero razionale rivolto ad argomenti astratti tipici del ragionamento; in tale modo, tale termine si è trovato così ad essere contrapposto alla sfera dell’irrazionalità. Possiamo quindi comprendere come per noi l’appellativo “intellettuale” stia quasi a significare “persona ragionevole e non irrazionale”.
Ah, mi chiedo quanti cosiddetti “intellettuali” siano veramente così. È allo stesso tempo indubitabile che, oggi, la ragionevolezza è comunemente associata anche ad entità diverse dall’uomo; basti pensare ad alcuni comportamenti adattivi di esseri animali oppure a quelle risposte espressive delle intelligenze artificiali, le quali userebbero la ragione intesa come capacità di calcolo.
Una sicurezza comunque c’è: ogni conoscenza sembra nascere/emergere da un lampo intuitivo (molto spesso “onirico”). Difatti, non mi sento di errare affermando che, nella storia del pensiero umano, l’intuizione può essere vista come quella capacità umana che ci pone tra il naturalmente ragionevole (limitato, per alcuni filosofi dell’Umanesimo come Nicola Cusano, dal principio di non-contraddizione) e il divinamente intelligibile (capace di cogliere l’Unità, la coincidenza degli opposti, nell’espressione del Molteplice).
A tal riguardo mi ritornano in mente i paragoni fatti dallo psichiatra Ronald Laing (che, insieme a David Cooper, fu promotore del movimento cosiddetto “dell’antipsichiatria) rispetto ai Folli ed ai Mistici: entrambi si bagnano nello stesso Mare, ma mentre i primi affogano sembra proprio che gli altri sanno intuitivamente come fare per tenersi a galla.
Follia, Sacro e difettoso
È difatti noto come, nel mondo classico, la follia fosse legata alla sfera sacra: il folle rappresentava la voce del divino, da ascoltare e interpretare. Il termine, poi, derivante dal latino “folle”, rimanda etimologicamente ai concetti di “vuoto” o “mantice”. A me piace ricordare, qui, anche quel termine che, molto spesso, sentivo usare rispetto a queste persone: “Invasato”, ovvero qualcuno che si poneva come recipiente, pronto ad essere colmato da qualcosa esterno a sé e, allo stesso tempo, incapace di contenerlo.
Nel Medioevo, così, il folle divenne il rappresentante del demonio, colui che deve essere liberato dal male e in qualche modo esorcizzato. Un’interpretazione opposta la si ha, invece, nel Rinascimento quando il folle viene considerato una persona diversa, sia per i valori sia per la sua filosofia di vita, una persona che secondo questa prospettiva va rispettata come tutte le altre persone. Nelle opere culturali, tra medioevo e rinascimento, il folle diviene così un personaggio, oggetto di rappresentazione artistica e di allegoria, stereotipo dell’insensatezza della condizione umana e ricettacolo delle paure dei propri contemporanei.
A partire dall’ottocento del secolo scorso, infine, l’immagine del folle divenne quella di una “macchina rotta”, cioè lesionata nel cervello. Siamo giunti all’epoca in cui dalla ricerca dell’Immortalità e della creazione degli homunculus (propria del pensiero Alchemico, in cui l’uomo cerca di avvicinarsi a Dio replicando con la propria capacità creativa (maschile) la Sua opera Generativa (femminile)), all’Uomo inteso come meccanismo, sì perfetto, ma composto di parti che possono “rompersi” (così come gli orologi, sempre più precisi, dell’epoca) e non funzionare più come dovrebbero, secondo un modello “ragionevolmente” prestabilito. Una tendenza alla “rottura”, alla irragionevolezza che, nel tempo, venne ad essere considerata come una malattia potenzialmente “contagiosa” (pensiamo, ad esempio, ad ogni volta in cui diciamo che “la stupidità può essere contagiosa”) da arginare e rinchiudere in luoghi adeguati: il deposito dei rifiuti per gli orologi rotti e gli ospedali psichiatrici per gli umani “rotti”. L’Internamento (o anche l’interramento se pensiamo ai depositi di rifiuti tossici della “Terra dei Fuochi”), ovvero il rinchiudere, il cercare di dimenticare ciò che ci fa paura nascondendolo dai nostri occhi, così come si nasconde la polvere sotto i tappeti o quello di cui abbiamo vergogna e non comprendiamo di noi stessi attraverso la “buona educazione” che di buono nulla ha, sembra aver assunto, per alcuni aspetti dell’epoca in cui viviamo, il valore di quello che noi tutti possiamo ritenere “ragionevole” e giusto: ciò che non si può capire o comprendere deve essere negato.
Follia e Speranza
Eppure, a me hanno insegnato che proprio la difesa della Negazione è la prima e più arcaica difesa dell’essere umano, una modalità che appartiene all’età più antica del nostro essere psichico: un’epoca psicotica, ovvero folle.

Viviamo quindi nel regno della follia, dove ogni parvenza di ragione è persa? Io penso proprio di no! La nostra cultura sta cambiando, i nostri giovani stanno intuitivamente (e follemente, così come tutta la primavera giovanile è) cogliendo come il recupero, il condividere, il curare (cioè l’aver cura) che non è solo guarire/riparare, forse è la strada migliore, perché dotata di Senso, per non perdere nuovamente, nel nostro comune cammino, il contenitore (l’Uomo) e il suo contenuto (l’Umanità).
Forse, chissà: questa nostra Terra, ragionevolmente folle (così come lo è la Natura ed i modi in cui ci parla, come ad esempio i virus) saprà ancora indicarci, attraverso le nostre Fantasie, i nostri Sogni e le nostre Intuizioni, la Via migliore per continuare ad Evolverci, evitando di essere buttati e dimenticati in qualche discarica cosmica.
Salvatore Rotondi
Dalla follia razionale si genera l’apertura ad una nuova interrogazione, dal vuoto cosmico si genera un evento nuovo. Una follia carica di cultura porta dentro se una volontà di potenza.