di Salvatore Rotondi
“Lodato sii, mio Signore, insieme a tutte le creature, specialmente per il signor fratello sole, il quale è la luce del giorno, e tu tramite lui ci dai la luce. E lui è bello e raggiante con grande splendore: te, o Altissimo, simboleggia. Lodato sii o mio Signore, per sorella luna e le stelle: in cielo le hai create, chiare preziose e belle.”
(Francesco d’Assisi, Laudes Creaturarum, 1224)
Durante l’infanzia la figura di Francesco d’Assisi mi colpì particolarmente: un uomo che aveva tutto eppure, dopo aver vissuto gli orrori della guerra tra Assisi e Perugia del 1202, decide di abbandonare le certezze della vita voluta dal padre per ricercare sé stesso attraverso il confronto con il Creato. Insieme alla convinzione che “onorare il padre” significa rendere onore alla sua esistenza, c’è sempre stata in me una profonda convinzione legata al fatto che non fu solo, per Francesco, la ricerca di Dio a spingerlo verso quella decisione ma, soprattutto, l’esigenza di capire quale posto avesse, come creatura nel Creato di Dio, l’Essere Umano. Potremmo quasi dire che, attraverso la fede e sé stesso, Francesco seguisse le stesse orme di Diogene che era alla ricerca dell’Uomo. Proprio su queste basi, Il Cantico delle creature (Canticum o Laudes Creaturarum), anche noto come Cantico di Frate Sole, rappresenta in un certo senso il suo testamento in forma poetica poiché, secondo una certa tradizione, la sua stesura risalirebbe proprio a due anni prima della sua morte, avvenuta nel 1226. Il Cantico comunque è una vera e propria lode a Dio e un inno alla Vita, a ciò con cui possiamo interagire poiché, nella natura stessa, ritroviamo il riflesso del Creatore, ritroviamo i nostri fratelli, la placida grandezza dell’Uomo che rispetta ed evolve sé stesso in sintonia con il Mondo che lo circonda. Tutta la Vita, in questo modo, diventa una vera e propria lode al Creatore.
Sole e Luna, così, diventano nella tradizione e, per un certo verso, nella nostra mente i nostri fratelli Maggiori: principi Maschile e Femminile. Un’altra tradizione, però, ribalta questa idea ed assegna i principi in prospettiva invertita. Infatti, la tradizione shintoista giapponese lega il Sole e la Luna a divinità l’una femminile e l’altra maschile. Addirittura la dea del Sole rappresenterebbe in Giappone l’origine del casato imperiale e protettrice delle isole. Ecco perché mi piacerebbe ora guardare a questa tradizione come completamento di una visione più simbolicamente complessa di questi elementi fondamentali per la Vita sulla Terra.
La dea del Sole, Amaterasu (altrimenti nota come Amaterasu Omikami, il cui nome significa “Grande dea che splende nei cieli”) è, come abbiamo detto, solitamente raffigurata con sembianze femminili e rappresenta la luce e il calore proprio del Sole; d’altronde non possiamo negare che, psicologicamente, per ogni mammifero la Madre rappresenti un po’ sia l’origine prima ma anche il riferimento primo a cui tendere, ovvero il nostro personale Sole. Questa dea, però, non rappresenta la divinità originaria; era appunto figlia del dio creatore, Izanagi (che significa “Colui che invita”), padre di tutti i kami (spiriti e divinità tutelari) e creatore delle terre giapponesi. Insieme a sua sorella e compagna Izanami (“Colei che invita”), onde eseguire un ordine impartito loro da altre divinità, fecero sorgere le terre dall’oceano e, mescolandole con l’ausilio di una lancia, crearono la prima isola, Onogoro-Shima, e poi le restanti otto isole che, tutte insieme, divennero poi la Terra di Yamato, ovvero il Giappone. Le due divinità così decisero di abbandonare il Regno del Cielo e di stabilirsi sulla Terra. Dalla loro unione nacquero poi il dio del mare O-Wata-Tsu-Mi, il dio delle montagne O-Yama-Tsu-Mi, il dio degli alberi Kuku-no-chi e il dio del vento Shina-Tsu-Hiko. Però, con la nascita dell’ultimo dio, quello del fuoco Kagu-tsuchi, Izanami perse la vita. Izanagi, preso dal dolore, uccise il figlio e dopodiché scese all’inferno (Yomi-Tsu-Kumi) per riprendersi la propria compagna. Arrivò troppo tardi: la sua sposa si era nutrita con il cibo infernale ed era diventata un demone malvagio. Izanagi fuggì così in superficie ed Izanami restò negli inferi, divenendone la terribile regina. Ritornato sulla Terra, Izanagi volle sciacquarsi il volto per liberarsi da quello con cui era entrato in contatto, eseguendo così un rito di purificazione; fu così che, dopo essersi tuffato in un fiume ed essersi soffiato il naso, originò il dio Susanoo, signore della tempesta, mentre dal suo occhio destro nacque Tsukuyomi, divinità della Luna e da quello sinistro Amaterasu, dea del Sole.
È impressionante come tradizioni così lontane, di popoli così diversi che abitano la Terra, abbiano echi simbolici così profondi. D’altronde in tal senso, lo stesso Carl G. Jung, teorizzando l’inconscio collettivo, qualcosa ce lo aveva già detto.
Su questa linea potrebbe essere interessante pensare ai tre grandi tesori sacri del Giappone, donati da Amaterasu a suo nipote Ninigi-no-Mikoto, inviato dalla dea a pacificare il territorio di Yamato (il pronipote di Ningiri fu poi il primo Imperatore del Giappone): la spada sacra Kusanagi, il gioiello Yasakani no Magatama (Nella cultura popolare viene solitamente raffigurata come una sfera dalle dimensioni di una palla da baseball con una coda, simile ad una virgola tridimensionale, attraversata da un foro nel centro; rappresenta, in un certo senso, lo stesso Genius Loci del Giappone, lo Spirito della Terra) e lo specchio Yata no Kagami (quest’ultimo fu, in particolare, il tesoro capace di far ritornare il Sole sulla Terra dopo che Susanoo aveva distrutto le coltivazioni di Amaterasu per profonda invidia). Lo specchio, comunque, ritorna anche nella tradizione legata a Tsukuyomi; difatti, in una delle versioni del mito, egli nasce da uno specchio fatto di rame bianco nella mano destra di Izanagi. Occhio e mano destra, quindi, sembrano essere associati nella rappresentazione simbolica dello Specchio, della riflessione, del pensiero.
In Giappone, quindi, si potrebbe quasi dedurre il fatto che il principio maschile, quello che normalmente in occidente rappresenta ciò che definisce, derime, divide, sia legato principalmente al nascondimento, alla luce riflessa, al mondo dell’invisibile e dell’illusione. Non a caso, infatti, il mito giapponese della impossibilità di incontro tra Amaterasu e Tsukuyomi nasca dall’atto di uccisione di quest’ultimo perpetrata ai danni della dea del cibo, rea di averlo ingannato con un banchetto sontuoso ma, diciamo, “poco igienico”.
Quindi, il dio della Luna, Specchio del Sole, rappresenta la capacità propria della riflessione ma anche la spietatezza di questa. Alla Luce, al Sole, invece, è demandato il principio femminile del Possibile, della Crescita, del Mondo. Amaterasu è infatti anche la dea delle messi, colei che ha introdotto la coltivazione del riso e, comunque, l’agricoltura in generale. La dea del Sole è colei che porta chiarezza al di là del nascondimento, definisce ciò che è da quello che non è, detiene la spada sacra che, donatagli da Susanoo dopo una lotta con un drago in cui era in gioco il proprio amore, porta Pace e non Guerra. Amaterasu, quindi, come dea della Vita, della Realtà e Tsukuyomi come dio di ciò che potrebbe essere ma ancora non è, della Fantasia, del Sogno (ma, in caso di sentimenti negativi e di paura, anche dell’Incubo, delle caverne infernali, dell’Ombra incosciente se guardassimo la cosa dal punto di vista junghiano).
Ciò che normalmente attribuiamo noi occidentali al Femminile è totalmente ribaltato al Maschile e viceversa. Tutto ciò ci richiama allora alla memoria la stessa rappresentazione classica del Tao, con i principi Yin e Yang, e quella meno classica, rappresentata da uno schermo totalmente bianco (come uno specchio) che intende rappresentarne il concetto di principio unico e Uno.
Eppure, in queste righe abbiamo accennato anche ad un’altra divinità, ovvero Susanoo, dio delle Tempeste. Questa divinità, forte ed ambiziosa, capace di distruggere, un vero e proprio spirito guerriero, sa anche riconoscere alla fine la divinità della sorella offrendogli la sua Spada Sacra, una spada nata dall’Amore. Ciò che distrugge a volte porta rispetto ed amore? Beh, io leggerei la cosa in modo diverso: il potere capace di distruggere, di trasformare ciò che circonda, di invidiare (anche riflessivamente) ciò che è, ritrova la propria divinità nel riconoscere che il proprio potere deve essere messo al servizio rispettoso della Luce e non, solamente, relegato ad obliare ciò che è.
Susanoo, forse, siamo un po’ tutti Noi: il riconoscere la Bellezza Sublime del Creato, allora, apre al suo Rispetto ed alla possibilità di operare con il nostro potere della Trasformazione (in primis tecnologica), tesi verso un Mondo Pieno di Luce!
Salvatore Rotondi