“Dimenticare come zappare la terra e curare il terreno significa dimenticare sé stessi.”
(Mahatma Gandhi)
“Ciò era negli auspici: un po’ di terra, non troppa, con un orto e
una fonte d’acqua sorgiva vicino alla casa, e in più un po’ di bosco.”
(Orazio, Satire, 35 a.C.)
“Solo chi non sa che anche la propria vittima è una creatura come lui può uccidere senza colpa.”
(Konrad Lorenz, L’Anello di Re Salomone, 1949)
“Io chiedo alla gente perché hanno delle teste di cervo appese alle pareti. Mi rispondono sempre perché è un animale così bello. Io penso che mia madre sia attraente, ma ho appeso solo delle sue fotografie.”
(Ellen Lee DeGeneres, Attrice, USA)
di Salvatore Rotondi
L’essere umano continua, ancora oggi e nonostante tutti gli studi di antropologia e di filosofia, a celare la propria natura ontologica. A volte, specialmente nell’ultimo secolo trascorso, si è spesso usato l’espediente riflessivo della venuta degli alieni per cercare di spiegarci cosa sia l’Uomo e che ci fa su questo pianeta che l’umanità stessa ha chiamato Terra (nonostante sia coperto per la maggior parte della propria estensione dal mare e, sempre di meno, dai ghiacci). Come entità viventi pensanti e coscienti dell’essere consci abbiamo cercato di comprenderci ipotizzando lo sguardo di un Alieno che, sceso sulla Terra, giudicasse il nostro Fare e il nostro Essere. Personalmente, però, mi sono sempre chiesto: a partire da cosa, da quali valori, da quali presupposti un alieno avrebbe potuto giudicare l’umanità? Ovviamente, gli scrittori di fantascienza hanno risposto a questa domanda (e continuano a rispondere) in vari modi; perlopiù le risposte che possiamo leggere in quelle narrazioni sono volte ad una autocritica sull’agito dell’Homo Sapiens Sapiens a partire da una rappresentazione dello stesso Essere Umano, ma secondo parametri assoluti; in un certo senso l’Alieno che venisse a giudicarci sarebbe quasi una specie di Super-Uomo nietzschiano, la cui consapevolezza potrebbe portarci la Verità su ciò che siamo e su come dovremmo comportarci per essere Noi stessi: una Versione migliorata e potenziata di quello che noi già siamo.
Su queste basi, e partendo proprio dalla fantascienza, mi sovviene allora tutta l’opera di Jules Verne (1828 – 1905), che da molti è considerato un visionario, da altri il padre del genere letterario di cui sopra. Non dobbiamo dimenticare che Jules Verne ha praticamente attraversato, con la sua intera esistenza, l’epoca d’oro della potenza umana sulla Terra e del dominio della nostra specie (con questo termine, però, già sto ragionando come un alieno) sulla Natura. Se ci pensiamo bene, ancora oggi dibattiamo e ci poniamo domande sugli stessi presupposti conoscitivi dell’Essere, le cui radici affondano nel secolo XIX d. C. e che sono l’orizzonte culturale e di pensiero che Verne stesso utilizzò per la costruzione delle sue opere, tutte basate sul riflettere la vita e le responsabilità dei propri personaggi, così come la magnificenza della Natura terrestre, i suoi misteri, il desiderio di conoscenza, di avventura e di speranza che impregna tutte le opere umane. L’opera di Verne, in un certo senso, ci sembra così visionaria e anticipatrice perché, guardando all’esterno di Noi, ci guarda contemporaneamente dentro.
Le storie di Verne sono continui viaggi nel Mistero della vita umana. Allo stesso modo mi piace leggere l’opera di un famosissimo autore italiano di romanzi d’avventura, Emilio Salgari (1862 – 1911). Le sue opere, nate come produzione sui giornali e mezzo di sostentamento della sua famiglia, sono state tradotte in quasi tutte le lingue del mondo perché, in modo straordinario, riuscivano a dipingere e narrare luoghi tanto lontani dalla vita di Salgari (che non ha mai viaggiato più di tanto) ma, allo stesso tempo, tanto vicini ai suoi lettori o alla loro fantasia. Salgari fu un grande studioso e, attraverso la propria fantasia, seppe arrivare in posti che, poi, non ebbe mai la fortuna di visitare.
Questa capacità di guardarsi intorno guardandosi dentro richiama in me il concetto stesso di coltivare. Questo termine, infatti, deriva dal latino cŭltus, participio passato di colĕre. Il termine colĕre, oltre al senso materiale di coltivare, possiede però anche quello morale di “attendere con premura” e quindi rispettare, venerare, abitare. In una dimensione esistenzialista, quindi, acquisisce anche il valore del muoversi, dell’incidere, del vivere. In quanto verbo questo termine è anche poi un ausiliare del verbo Avere e sta, pertanto, ad indicare il lavorare la terra affinché diventi produttiva e curare le piante affinché diano frutti, oppure indica il dedicarsi con impegno a un’attività, specialmente intellettuale o il cercare di mantenere e rafforzare un rapporto interpersonale (come, ad esempio, coltivare un’amicizia) e finanche quello con sé stessi, coltivando i propri sogni e la speranza.
Verne e Salgari, due viaggiatori del XIX secolo, rappresentano quindi due esseri umani capaci di “coltivare” e, così, esaltare la propria Fantasia, la propria Immaginazione, i propri Sogni sull’Umanità e sul Mondo, senza per questo dover presupporre l’arrivo degli Alieni, di uno sguardo esterno a noi stessi che potesse portare ragione e illuminare le zone oscure della nostra essenza.
Ai limiti del XIX secolo e nel pieno del XX secolo entriamo totalmente nell’epoca in cui tutto si spiega attraverso “l’occhio scientifico”, l’occhio cioè della ricerca che vuole farsi oggettiva e potente, della tecnica e della tecnologia capace di dirci cosa dovremmo essere e come potremmo diventare. Emerge così la produzione fantascientifica che da “la scienza salverà l’incoscienza umana” arriverà alla rappresentazione di mondi distopici dove l’essere umano ha paura di sé stesso o cerca di ritrovarsi in un mondo oramai morente, meccanizzato o, addirittura, totalmente fittizio, virtuale.
Su questa linea di pensiero ritorna così alla mia mente il ciclo filmico (e non solo), quasi infinito, de “Il pianeta delle scimmie” (La Planète des Singes, 1963) di Pierre Boulle (1912 – 1994), in cui gli esseri umani si scontrano per il controllo della terra con scimmie intelligenti (Simius sapiens). In particolare molti ricorderanno l’adattamento cinematografico del 1968 con la famosissima scena (estremamente distopica) in cui l’astronauta George Taylor (interpretato da Charlton Heston) cade in ginocchio su di una spiaggia e, maledicendo l’umanità, guarda distrutto quel che resta della Statua della Libertà corrosa dall’effetto delle bombe atomiche e del tempo. Ecco, quella è per me l’immagine dell’essere umano, Alieno a sé (i personaggi del film si ritrovano sulla Terra, non riconoscendola, dopo essere partiti secoli prima per un viaggio stellare), che torna alla propria Casa, non riesce a riconoscerla e la trova addirittura abitata da altre creature, che ritiene inoltre inferiori e la cui occupazione principale è fare studi (anche di vivisezione e lobotomia) sulla natura umana, per comprenderne le incapacità nonostante il cervello sviluppato, letteralmente cacciando gli esseri umani come se fossero animali.
D’altronde, non dobbiamo dimenticare che il termine cacciare ha come base etimologica il latino captiare, derivato di capĕre «prendere», participio passato di captus. Questo termine sta quindi ad indicare tutte quelle azioni volte al tentare, allo sforzarsi di prendere, osservare e sorprendere, impadronirsi di un qualcosa, catturare. È un termine che rappresenta in pieno la tendenza dell’essere umano in particolare ad acquisire, ad in-tendere, ad essere in-tensionato al raggiungimento di qualcosa, di un obiettivo: alla realizzazione di un progetto. Cacciare, però, assume spesso anche i significati di allontanare da sé, spingere violentemente per entrare in una situazione (come ficcarsi, cacciarsi nei guai) o tirare fuori, estrarre con forza, quello che è nascosto, invisibile ma che sappiamo esserci.
Nella visione dell’opera citata, quindi, le scimmie cacciano gli esseri umani, se ne impossessano come per comprendere la propria origine che, allo stesso tempo, cercano di tenere nascosta alla coscienza della massa (pensiamo alle scene con gli scavi archeologici che raccontano, come capsule del tempo, le nostre radici sia culturali che psicologiche) perché terribili e perché indicanti nella falsa idea di essere “primi” e, quindi, i privilegiati agli occhi della Madre Terra, venerata attraverso la cura della coltivazione.
Alla ricerca delle nostre origini, attraverso la fantasia o il nostro operato, continuiamo ancora oggi a cercare i motivi e la ragione per la quale dovremmo e potremmo considerarci le creature amate e predilette da Dio. Chissà, forse semplicemente siamo entità di passaggio su questo pianeta, capaci solo di far emergere la sua coscienza collettiva, attraverso quel che il filosofo Husserl (1859 – 1938) indicava come le primarie forme antropologiche del procedere conoscitivo umano: l’esplorazione e l’archeologia.
Ed allora, in conclusione di questo lungo scritto, mi piace poter esaltare quel che io pongo al di là del coltivare e cacciare: la Cura. Forse un giorno, come nelle parole della famosa canzone di Franco Battiato, potremo riuscire a dire a tutti gli esseri viventi (e così a noi stessi): “…perché sei un essere speciale ed io, avrò cura di te, Io sì, che avrò cura di te” (Battiato, 1997).
Salvatore Rotondi