di Salvatore Rotondi
“L’abitudine è un rito, si crede di fare qualcosa come se fosse un piacere e in realtà si sta ubbidendo a un dovere che ci si è imposti.” (Antonio Tabucchi)
“Il catastrofismo prima ci terrorizza, poi ci mette il cuore in pace con piccoli gesti rituali degni di un animismo post-tecnologico.” (Pascal Bruckner)
“Qualsiasi idiota può superare una crisi; è il quotidiano che ti logora.” (Anton Čechov)
“In mezzo al mio lavoro quotidiano, opaco, uguale e inutile, mi appaiono visioni di fuga, immagini sognate di isole lontane, feste in viali di parchi d’altri tempi, altri paesaggi, altri sentimenti, altro io.” (Fernando Pessoa)“Quella specie di disagio che si prova quando si cerca di immaginare la vita quotidiana dei grandi spiriti… Verso le due del pomeriggio, che cosa poteva mai fare Socrate?” (EM Cioran)
Qualche anno fa, durante un laboratorio gruppale presso un istituto della periferia est di Napoli (zona notoriamente soggetta ad alti indici di dispersione scolastica), mi ritrovai a discutere con una ragazzina delle medie inferiori che sosteneva di non saper fare niente e che anche la scuola le sembrasse inutile. Al tempo le chiesi cosa facesse ogni mattina quando si svegliava e lei, innocentemente, mi rispose che non faceva “nulla” di particolare, tranne che alzarsi, pensare a lavarsi, vestirsi e preparare la colazione per sé ed i propri fratellini, poi si rifaceva il letto, vestiva i fratelli per la scuola e rassettava casa prima di scendere anche lei (il padre era in carcere e la madre scendeva prestissimo per andare a fare la domestica in un’altra zona della città, molto distante e di certo più agiata). A questo racconto io le risposi che allora lei sapeva fare tantissime cose, che tante persone sembra siano capaci di fare ma che, invece, non riescono a concretizzare nel breve tempo che lei stessa ci mette per fare tutte queste cose; forse, un giorno, sarebbe stata capace di mettere su addirittura un albergo, se si fosse però impegnata a studiare e migliorare/ottimizzare ancora di più i propri procedimenti di accudimento degli altri e di servizio alla casa. La ragazza mi sembrò cambiare espressione, mi sorrise e mi disse: “Allora dottò, anche la scuola può servire a qualcosa!”. In quel sorriso sentii tanta speranza, un orizzonte da guardare ed a cui puntare, un obiettivo concreto e non quello troppo spesso assurdo che ci vuole tutti medici, ingegneri, avvocati, psicologi, insegnanti, dipendenti pubblici, politicanti, etc.

Ho deciso di aprire il breve articolo di questo mese con questo racconto perché il tema da me scelto sembra fortemente paradossale: riti e quotidianità! Infatti, se ci pensiamo bene, ognuno di noi inizia la propria giornata, la propria quotidianità, attraverso qualche forma, più o meno ossessiva, di ritualità; ad esempio, normalmente definiamo “rito della colazione” anche il quotidiano incontrare al bar i soliti colleghi per scambiare qualche chiacchiera prima dell’inizio della nostra giornata lavorativa.
Tutto quello che si ripete ciclicamente, quindi, potrebbe essere inteso come una ritualità capace di scandire il nostro tempo, la nostra esistenza. Quanto, a volte, può essere rassicurante tutto questo e quanto un evento qualsiasi, capace di rompere tale ciclicità, può farci sentire senza sicurezze o far emergere qualche paura inconsapevole di perdita. Quanto spesso, però, lo sclerotizzarsi, il perdere di senso della stessa ritualità quotidiana può per noi essere viatico per una profonda alienazione da sé stessi, per quella vacua sensazione di inutilità per tutto ciò che facciamo e che prima sembrava avere uno scopo chiaro, per quel vuoto pneumatico che sembra inghiottirci e, nei casi limite, ci porta addirittura a non alzarci dal letto oppure a restare catatonici innanzi a ciò che ci circonda e che cambia intorno a noi.
L’Essere Umano si pone così, secondo me, come medium tra il poter essere semplice macchina scandita dal proprio ritmo bio-fisiologico (le rappresentazioni dell’uomo come macchina perfetta si sprecano dalla creazione dei primi orologi, ovvero dal XIV secolo, sino ai giorni nostri) e l’aspirazione a superare il proprio Tempo, il proprio Spazio, il proprio Pensiero, andando al di là degli orizzonti che la Natura stessa gli ha posto innanzi (in questo pongo il senso profondo del Sublime di cui Immanuel Kant ci parla nella seconda parte della sua Critica del Giudizio (1790) dopo aver parlato del giudizio estetico riflettente del Bello).
Il Tempo della quotidianità, quindi, ci attira come forza gravitazionale verso il nostro essere macchina perfetta o perfettibile; allo stesso tempo, però, il Tempo della Ritualità ci induce a guardare al di là di noi stessi, del nostro essere individui, ad un altro Tempo, Spazio e Pensiero. Mi sto riferendo qui, pertanto, non ai rituali quotidiani ed individuali, più o meno condivisi, ma al Senso della Ritualità Collettiva, dei Momenti a volte Sublimi (o Terrificanti) che i gruppi umani riescono a vivere Insieme, a condividere, a trasmettere (attraverso la Cultura) ai propri pronipoti proprio come gli antenati avevano fatto secoli e millenni fa.
Attenzione, non sto parlando della forma del rituale, il fideismo religioso vuoto di senso e contenuto, che mantiene fede al canone rigido di movimenti, strumenti e segni distinti; mi sto invece riferendo al contenuto di Senso, di Fede che una Ritualità Collettiva, la cosiddetta Tradizione (quella Vera, dotata di Senso), ha bisogno di non perdere per evitare che l’Umano si trasformi in un Macchinario, in uno Strumento Utile solo ai fini di pochi soggetti. Lo Schiavo, d’altronde, non è altro che un individuo, un ente ridotto a Strumento. Possiamo allora diventare schiavi di una idea, di una società, di una cultura, di un singolo modo di vedere il Mondo ed il Futuro? Beh, certamente! Perdendo il Senso profondo della Ritualità Collettiva (la sorella maggiore che, amorevolmente, aiuta i propri fratellini ad iniziare la propria giornata) ci ritroveremo ad essere meri esecutori di un programma sociale che ci vuole tutti svegli ad un certo orario, tutti pronti ad un altro, tutti in auto o nei treni pochi minuti dopo, tutti a prendere il caffè o in ufficio, tutti a fatturare…insomma, tutti “Fuori” da noi stessi, tutti schiavi di qualcosa che noi stessi abbiamo creato e da cui oggi dipendiamo perché, altrimenti, dovremmo fare i conti con la paura dell’Ignoto. E poi ci meravigliamo che abbiamo le pillole ed i programmi di mindfulness per combattere la cosiddetta ansia lieve? Ebbene, vi metterò al corrente di un segreto: l’ansia è parte integrante della nostra natura umana, è quella sensazione che ci prepara al Sublime, anche a quello che dovrebbe Terrorizzarci (pensiamo ad esempio allo spettacolo di onde oceaniche giganti che si infrangono sulle scogliere o del vento che soffia e fa agitare gli alberi o dei fulmini in lontananza che saettano, dei vulcani che eruttano, etc.).

Siamo esseri naturali il cui Esserci è scandito dalla quotidianità ma il cui Futuro anteriore si apre, al di là di Noi stessi, attraverso l’eredità di Ritualità Culturali e Spirituali, cariche di Senso, di Amore, di Sublime (anche quando esso si incarna nel Sacrificio Umano). I Cattolici hanno codificato il Senso del Sacrificio del Cristo nel Rituale domenicale della Consacrazione delle ostie che si fanno Corpo del Signore. Chissà, avrebbero potuto sacrificare fisicamente un componente della comunità ogni domenica e, così facendo, ripetere ritualmente il sacrificio del Gesù di Nazareth; hanno preferito cambiare forma al rito e dare vita alla Ritualità Simbolica…mi chiedo, però: quanto l’attuale forma del rito riesce ancora a trasmettere il Senso del Sacrificio che fu? Forse, a volte, la forma/contenitore ha bisogno di essere cambiata per non perdere il Senso/Contenuto tramandatoci…ma questa scelta spetta solamente alla quotidianità, capace di riflettere su sé stessa, senza perdersi in meccaniche e strumentali pratiche prime di emozioni (positive o negative che siano).
a cura di Salvatore Rotondi