di Salvatore Rotondi
“La superbia è propria di chi comanda.” (Baruch Spinoza)
“La superbia va a cavallo e torna a piedi.” (Proverbio)
“In faccia ai maligni e ai superbi il mio nome scintillerà, dalle porte della notte il giorno si bloccherà.” (Francesco de Gregori)
“L’ingratitudine è figlia della superbia.” (Miguel de Cervantes)
“La natura dell’uomo superbo è vile e di mostrarsi insolente nella prosperità e
abietto e umile nelle avversità.” (Niccolò Macchiavelli)
La Superbia figlia dell’ignoranza
Quando penso alla Superbia mi viene sempre in mentre il proverbio per il quale essa è figlia dell’ignoranza; di quest’ultima, però, e non della stupidità. Ignoranza deriva dal latino ignorantia, derivato a sua volta dal privativo in e dal verbo greco gnorizein (conoscere); quindi, letteralmente indica una “mancanza di conoscenza” di colui che ha trascurato la conoscenza di determinate cose che si potrebbero o dovrebbero sapere.
È paradossale associare quindi la Superbia con l’Ignoranza, eppure continuando sulla linea di questo paradosso non posso fare a meno di associare, forse proprio per questo, il famoso detto Socratico “Io so di non sapere” (quindi, di ignorare?) con l’altrettanto famoso “Enigma della Sfinge”. Quest’ultimo è il primo enigma della storia di cui abbiamo documentazione. Nella mitologia greca, infatti, veniva posto dalla Sfinge all’ingresso della città di Tebe a tutti i passanti e chi non era in grado di risolverlo veniva strangolato, o secondo alcune fonti (Eschilo) divorato dal mostro.
L’indovinello, citato da vari autori (come ad esempio Pseudo-Apollodoro) descrive la Sfinge in modo classico, ossia un leone con volto da donna ed ali da uccello. Tale mostro, inviata da Era ed accovacciata sul Monte Ficio, proponeva il seguente enigma: “Chi, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadrupede, bipede e tripede?”. Sappiamo tutti la risposta: l’Uomo. Pertanto, possiamo forse facilmente sostenere che l’essere umano si muove tra la ricerca della conoscenza di sé e la presunzione del suo superamento, ingannandosi in modo tale da essere vittima della Superbia?
Superbia e allegorie
D’altronde non possiamo dimenticare che il termine Superbia deriva dal latino superbia, derivato di superbus, ovvero “superbo” ed indica l’esagerata stima di sé e dei propri meriti (reali o presunti), che si manifesta esteriormente con un atteggiamento altezzoso e sprezzante e con un ostentato senso di superiorità nei confronti degli altri.
L’esagerazione, caratteristica della Superbia, è il tono e il tema che accompagna anche molti dei simboli artistici della superbia, come ad esempio il pavone, lo specchio (se pensiamo anche all’associazione che possiamo ritrovare nel Faust di Goethe) e il pipistrello.
Nell’iconografia rinascimentale può, inoltre, capitare di trovare la superbia attribuita al leone o l’aquila (da qui la mia associazione con la Sfinge); d’altronde, pure da Dante Alighieri nell’opera Divina Commedia associa la superbia al leone, una delle tre fiere.
È proprio tra la fine del Duecento e inizio Trecento che la lingua italiana acquisisce i termini superbia e superbo dal latino, nel quale mostrava proprio l’ambivalenza sin qui sottolineata. L’altero, insolente e sdegnoso sì, ma insieme all’illustre, al nobile, al magnifico (chi non ha mai detto di un qualcosa, che fosse un’opera di qualsiasi tipo, che fosse veramente “Superba”). La qualità del superbo è pertanto estremamente articolata e complessa anche sotto il profilo psicologico poiché esprime simultaneamente tanta ammirazione quanto biasimo. Accanto a quel ‘super’ che è evidentemente l’indice di un “sopra”, si trova poi l’ipotetica radice “-bhos” del verbo essere (che ha diverse radici differenti, ad esempio questa è quella che spiega il nostro ‘fu’). Letteralmente un essere, un crescere sopra, quasi come se ci fosse una connaturata vocazione della persona superba a superarsi ed a non nascondere questo atteggiamento, a vantarsene, fino a chiudersi in sé stesso e nella propria convinzione di superiorità.
Secondo lo psicoanalista Jacques Lacan (Parigi, 13 aprile 1901 – Parigi, 9 settembre 1981), al culto di sé del soggetto superbo è associata una medesima pulsione psichica di tipo aggressivo, che può giungere a manifestarsi in tendenze addirittura omicide o suicide. In accordo con gli insegnamenti buddhisti, Lacan inoltre ha ritenuto l’amore morboso di sé come la radice di tutte le malattie mentali. Soggetto di Frustrazione e autoesclusione sociale, il superbo è quindi di frequente anche invidioso (le cui caratteristiche sono state descritte nell’articolo precedente).
La Superbia narcisistica
Difatti, come per l’Invidia, nel Cristianesimo esiste il peccato di superbia. Esso è considerato il peggiore dei sette vizi capitali, poiché (come per il Buddhismo) rappresenta la radice di ogni altro peccato e perché, implicitamente il superbo vuole sostituirsi a Dio, con il conseguente disprezzo del Suo Amore e del Suo Ordine. È d’altronde il peccato di Lucifero, l’origine della sua caduta dal Cielo, che stimava sé stesso come principio e fine del proprio essere, disconoscendo così la propria natura di creatura di Dio e offendendo quindi il Creatore. Lucifero vuole essere cioè padrone e sovrano di sé, autonomo e indipendente da Dio e dal prossimo.
La superbia è quindi, in tale prospettiva, la pretesa di meritare per sé stessi, con ogni mezzo, una posizione di privilegio sempre maggiore rispetto agli altri. Quest’ultimi devono riconoscere e dimostrare di accettare la loro inferiorità correlata alla superiorità indiscutibile e schiacciante del superbo. In tal senso, però, si potrebbe dire lo stesso anche del dio monoteistico. Tale associazione, però, non può essere fatta per l’essere umano che, grazie alla definizione di sé come essere imperfetto, risulta essere sempre “aperto” al proprio miglioramento. Tale “apertura” è ciò che viene persa nell’atto della Superbia che si “chiude” nelle proprie convinzioni (quando esprimiamo il giudizio di “superbo” ad un’opera umana ciò che ci muove, invece, è proprio quel senso di possibilità di superamento dei limiti, quell’apertura al miglioramento che tutti noi, in quanto esseri umani, siamo chiamati ad operare nella nostra vita). Non si può allora dimenticare che nella dottrina morale cattolica la superbia è difatti considerata il peccato narcisistico per eccellenza. Tommaso d’Aquino, ad esempio, affermò che Il superbo è innamorato della propria eccellenza.

A questo punto, e considerato il fatto che il peccato di Superbia è considerato l’origine degli altri sette peccati capitali, non possiamo evitare di ricordarci del mito di Niobe, figlia di Tantalo, ricco re della Frigia, punita dagli dei proprio per la sua superbia. Il mito racconta che Tantalo, un umano protetto dagli dèi celesti, fu invitato un giorno sull’Olimpo ma fraintese la benevolenza divina e divulgò alcuni segreti che Zeus gli aveva confidato in quell’occasione; per questo peccato fu cacciato nel Tartaro e condannato a un eterno supplizio. Tantalo, in vita, aveva avuto parecchi figli, tra cui Pelope e Niobe, che aveva sposato Anfione dal quale aveva avuto sette robusti figli maschi e sette bellissime figlie femmine. Niobe, per questo motivo, si vantava di essere più feconda di Leto, madre di Apollo e Artemide, e pretendeva che a lei spettassero gli onori divini. Questa superbia arrivò alle orecchie di Leto che incaricò i suoi figli di punire Niobe. Apollo così uccise con il suo arco di argento i suoi sette figli e successivamente anche Artemide sterminò le sette figlie. Riconoscendo ormai troppo tardi la propria colpa e ammettendo di essere stata punita giustamente, Niobe pregò allora Zeus che la tramutò in roccia conservandone però la sua forma; da quel momento in poi, anche se trasformata in pietra, Niobe piangerà in eterno per le sue perdite e il suo peccato. Secondo quanto narra Ovidio, poi, quel pianto si trasformò in una fonte che sembra si possa trovare sul monte Sipilo in Lidia, presso Magnesia.
“Io so di non sapere”
Il Mito, come sempre, insegna. Ci indica come si possa rischiare di perdere il nostro bene più prezioso (i figli, ovvero il nostro futuro) quando pensiamo e ci dichiariamo essere perfetti, completi cioè così come siamo qui ed ora, dimentichi della nostra natura, il cui senso più grande è la sua caducità, la mortalità, super-abile solo attraverso la con-divisione, la trasmissione di ciò che sappiamo, un sapere mai completo, sempre perfettibile.
La Superbia allora si fa pertanto pericolo per l’Umanità quando essa si chiude in sé stessa, pensando di aver raggiunto, attraverso il potere della propria sapienza e ragione, il potere necessario a definire e ridefinire il proprio destino, il proprio futuro, al di là di tutto e tutti, persino del Creato. La vera sapienza, allora, non sta nella rassegnazione di non poter mai giungere alla conoscenza divina ma nel “sapere di non sapere” e nel piacere di continuare a crescere come Umanità, superando noi stessi attraverso il nostro Essere che si invera nelle nostre opere, condivise al di là dei limiti del tempo del singolo umano, quando esse assumono il carattere del “Superbo”.
Salvatore Rotondi
È bene iniziare la giornata con lettura e riflessioni sul principale “vizio” dell’essere umano che lo rende meno di una bestia, la quale questo vizio non ha.