di Salvatore Rotondi
“Solo gli imbecilli non sono ghiotti… si è ghiotti come poeti, si è ghiotti come artisti…”
(Guy De Maupassant)
“L’ingordigia è un rifugio emotivo: è il segno che qualcosa ci sta divorando.”
(Peter De Vries)
“Gola è mantenimento della vita.”
(Leonardo Da Vinci)
“La gola è un vizio che non finisce mai, ed è quel vizio che cresce sempre, quanto più l’uomo invecchia.” (Carlo Goldoni)
“Gola e vanità, due passioni che crescono con gli anni.”
(Alessandro Manzoni)
“I miei mal di gola sono sempre peggiori di quelli degli altri.”
(Jane Austen)
Gŭla
La gola è un termine che deriva dal latino gŭla e, come sappiamo, designa anatomicamente la parte anteriore del collo, che corrisponde internamente alla parte più profonda della bocca, al tratto superiore del tubo costituito dalla laringe e dalla trachea, che da un lato porta l’aria a bronchi e polmoni, e dall’altro dà accesso all’esofago per permettere il passaggio del cibo nello stomaco. Nel linguaggio comune è retoricamente utilizzato in molti modi: quando, ad esempio, proviamo, per motivi fisici, psicologici, emotivi, una sensazione di spasmo faringo-esofageo tale da impedire, o rendere difficoltosa, la deglutizione, ciò costituisce una difficoltà, un fastidio, un motivo di preoccupazione o d’angoscia che rappresentiamo con l’immagine di un osso in gola oppure con quello della gola serrata (più comune, però, per motivi di forte commozione o di intenso dolore emotivo).
Quindi, in senso figurato, la gola, in quanto organo destinato al passaggio del cibo, sta simbolicamente ad indicare il desiderio di ciò che appartiene al mondo esterno, agli elementi che ci permettono di esistere; allo stesso tempo e proprio per questo, il termine arriva a designare la golosità, il desiderio forte di qualcosa ovvero, nella prospettiva della morale cattolica, uno dei sette vizi capitali: il vizio di insaziabilità.
Gola, peccato primordiale
Quello di gola è, in effetti, un peccato che ha radici primordiali, in quanto ci fa riflettere sulla nostra iniziale animalità egoica che viene esasperata dal nostro radicato desiderio di “appagamento immediato del corpo” (e non solo), attraverso l’utilizzo di qualsiasi mezzo che crei il piacere della soddisfazione e che provochi compiacimento (solitamente per via orale) e appagamento pressocché istantaneo, anche se tale pratica eccede la giusta misura, la quale potrebbe essere individuata nella semplice pacificazione dei bisogni di mantenimento in vita. Pensiamo, allora, come nel sesto canto della Divina Commedia, Dante Alighieri posiziona nella terza cerchia dell’Inferno i peccatori di gola, costretti ad ingoiare la fanghiglia generata da una incessante pioggia fredda e nera, oppure come i golosi del purgatorio siano, invece, ridotti a corpi scheletrici, camminando sotto alberi rivolti sotto sopra carichi di frutta e acqua soffrendo la fame e la sete. In tal senso, quindi, l’ingordigia può sembrarci da condannare sia in quanto esempio di sfrenatezza e di lascivia al posto della modestia e del controllo di sé, sia come ingiustizia sociale poiché chi ne soffre tralascia i principi della giustizia e del rispetto per gli altri (il desiderio smodato e la predazione di risorse naturali, messo in piedi da alcuni popoli e nazioni rispetto ad altri, può ben rappresentare un qualcosa del genere).
Gola e cibo
Possiamo così notare sulla scorta della suggestione dantesca come, nella prospettiva sociale di orizzonte occidentale (oramai diffusa in tutto il mondo), l’immagine estetica, attraverso la quale ognuno si presenta agli altri, diventi una delle espressioni tangibili di tali problematiche. Il rapporto col cibo, infatti, è diventato per tali società un problema veramente serio, poiché esso investe molti degli aspetti legati all’esistenza degli individui. Difatti, siccome il bisogno e la ricerca di cibo rappresentano come abbiamo detto la prima condizione di esistenza, spetta al cibo stesso ed alla gola mettere in scena un tema che non è prettamente alimentare, ma profondamente esistenziale, perché va alla radice dell’accettazione o del rifiuto di sé: l’espressione tangibile del proprio esistere. Quando l’immagine sociale, allora, non corrisponde ai canoni di bellezza diffusi nella società, l’eccesso di forme o della loro assenza si trasformano infatti in un modello negativo di personalità e così la persona troppo grassa o troppo magra, che già ha problemi esistenziali, si trova oltretutto privata del conforto e della solidarietà degli altri.
Proprio per questo, le forme comportamentali (e non) di squilibrio collegate al cibo e alla sua assunzione sono varie; ad esempio, essere grassi in una società che predilige i magri equivale ad una auto-esclusione sociale (pensiamo all’obesità grave); in tal senso, le discipline che avevano come obiettivo quello di salvare l’anima (come la mortificazione, l’astinenza, il digiuno) sono state così reintrodotte come una sorta di esercizi, diete, moderazione e misura, con l’intento però di salvare l’identità della persona grassa, e la sua possibilità di essere accettata, cercata e non tanto per garantire la salute del corpo.
Anche per questo, quando le tecniche e le diete naufragano, ciò che entra in crisi è la sicurezza circa la propria esistenza, che non ha ancora trovato dove ancorarsi. Un meccanismo simile coinvolge anoressiche e bulimiche, nel tentativo di controllare sé stessi e le relazioni, di essere visibili o di diventare invisibili sino a scomparire come evanescente è il senso della vita di un individuo lasciato a sé stesso (non è un caso che tali disturbi del comportamento alimentare e psichico siano molto diffusi tra gli adolescenti, specialmente nelle società cosiddette “industrializzate” o, diremmo oggi, densamente “informatizzate”).
Abbiamo sino ad ora tenuto conto della tangibilità del peccato di gola quando esso si rivolge al cibo concreto, nella sua assunzione eccessiva o limitata. Ma non esiste solo il cibo per il corpo, esiste anche il cosiddetto “cibo dell’anima”. Questo pensiero mi porta ad associare il fatto che la prima tentazione per l’uomo, quella del serpente nel terzo capitolo del libro della Genesi, viene ad essere rappresentata proprio in relazione al cibo, al mangiare cioè ciò che non doveva essere mangiato, il frutto dell’albero della conoscenza. Nel testo, infatti, Dio, dopo aver creato Adamo ed Eva (il primo nome ebraico è collegato con la parola che significa “terra”, poiché il corpo dell’uomo sarebbe stato modellato con la creta; il nome di Eva, invece, ha la stessa radice del verbo “vivere” e difatti nel testo essa sarà definita in seguito “la madre di ogni vivente”), li mette a vivere nel giardino dell’Eden, comandando loro di nutrirsi liberamente dei frutti di tutti gli alberi presenti, tranne che dei frutti del cosiddetto albero della conoscenza del bene e del male e poiché Adamo ed Eva invece ne mangiarono, il Signore li cacciò dal Giardino dell’Eden nel mondo. La loro condizione fisica e spirituale così cambiò quale risultato dell’aver mangiato il frutto proibito.
Gola, trasgressione, Anima
Come Dio aveva promesso, essi insieme ai loro figli diventarono mortali ed avrebbero affrontato malattie, dolori e la morte fisica, oltre al fatto di non poter più camminare e parlare faccia a faccia con Dio, ovvero con il principio primo di tutte le cose. Il desiderio di conoscenza, la cosiddetta pulsione epistemofilica (insieme alla paura di non saperne abbastanza, la quale si accompagna con il senso di impotenza e svuotamento di sé), può essere allora indicata proprio come ciò che spinge l’animo umano a trasgredire, tradire, trascendere la sua ontologia individuale come creatura (anche se privilegiata perché ad immagine di Dio) tra le creature, andando al di là di sé, incamminandosi in un territorio oscuro, impervio, doloroso, andando, paradossalmente, alla ricerca del modo con cui costruire con le proprie mani il senso dell’esistenza della propria anima. Nel linguaggio biblico, d’altronde, l’anima non è, come invece era per i Greci, una parte dell’essere umano contrapposta al corpo: dire anima, infatti, significava in prospettiva biblica dire la totalità della persona, nella profondità di sé.
Nell’Antico Testamento, poi, l’anima è indicata attraverso la parola ebraica nefesh, la cui radice etimologica designa anche una parte del corpo, la gola e forse anche lo stomaco. Inoltre nefesh indica anche la fame e la sete che la gola e lo stomaco risentono. Dunque l’anima rappresenta nel suo significato più letterale una preoccupazione corporale, l’appetito, il desiderio di vita. L’uomo, in tal senso, non è un essere da definire ma è un appetito vivente di vita che supera, attraverso passione e desiderio, la ragione e la volontà cosciente. L’anima si riferisce quindi alla fragilità umana e allo stesso tempo è un tesoro inestimabile. Per questo, perdere la propria anima significa ridurre la vita a un insieme di funzioni da assolvere senza alcun coinvolgimento e desiderio. Il peccato di gola diventa allora il pericolo della disgregazione dell’anima, del nefesh: la sete di vita cerca così di essere saziata così in modo scomposto, sbagliando il proprio bersaglio, ovvero non cercando la reale risposta a tale sete ma appagandola, per il momento, attraverso il canale fisico-simbolico della gola. Ogni peccato di gola diviene così, anche in questa prospettiva, una risposta sbagliata, un rifugio nell’edonismo per alienarci da una situazione che non riusciamo a dominare (in cui ci sentiamo morire), un atto attraverso cui esprimiamo una idea sulla vita che ci dice che essa è prendere, offrire a sé stessi, accumulare per sé senza alcuna condivisione, è divorare, consumare la propria e altrui vita in modo egoistico e non come dono di senso e di sé agli altri, attraverso tutte le forme che ci sono possibili, come ad esempio la comunicazione di ciò che di meglio abbiamo dentro di noi.
Gola e V chakra
In tal senso, mi sovviene come, nella tradizione vedica indiana del 500 a.C., il quinto chakra si trova all’altezza della gola, e proprio per questo motivo è chiamato anche “chakra della gola”. Il suo nome in sanscrito è Vishuddha, che significa: “puro” (è associato alla tiroide, ed è responsabile della salute e dell’attività di gola, collo, bocca, denti, mandibola, udito, esofago, parte alta dei polmoni, braccia). Esso rappresenta la nostra capacità di comunicare ed esprimere la nostra verità, dove la parola comunicazione va intesa non solo come “espressione di sé”, ma anche come capacità di ascoltare. Il suo ruolo principale è quello di guidarci nell’ascolto interno ed esterno, e nella capacità di comunicare ed esprimere con accuratezza ciò che sentiamo, anche attraverso la creatività, intesa come capacità di affrontare la vita in modo differente, essendo aperti ad infinite possibilità e prospettive. Il suo colore è l’azzurro, che trasmette un senso di tranquillità, calma e serenità. La sua energia è associata all’elemento etere, ed è il primo dei chakra considerati “superiori”, quelli più legati all’aspetto mentale e spirituale. Da un punto di vista evolutivo, Vishuddha si sviluppa tra i 7 ed i 12 anni, attraverso la necessità di essere ascoltati e di ascoltarsi, nonché di trovare la propria voce ed espressione, attraverso l’acquisizione e lo sviluppo di capacità comunicative, anche creative, come la scrittura, il canto o la musica. In genere, una persona con il quinto chakra in equilibrio sa comunicare le proprie esperienze e verità in modo chiaro e accurato, e sa accogliere e riconoscere le verità altrui. Manifesta anche un buon senso del ritmo e del tempismo, e questa armonia gli consente di immergersi nelle profondità del mondo dei suoni, composto dalle parole e dalla musica. Da un punto di vista fisico, invece, un quinto chakra in disequilibrio può manifestarsi con problemi alla gola, alle orecchie, al collo ed alla voce. A volte tale carenza è solo un problema di comunicazione esterna, altre volte invece può essere anche di comunicazione interna, dove si può creare una sorta di separazione e disconnessione tra corpo e mente (d’altronde, quando abbiamo difficoltà ad esprimere ciò che abbiamo dentro, proviamo come detto all’inizio una specie di “nodo alla gola”). Quando, al contrario, l’energia di questo chakra è in eccesso, non riusciamo a controllare le nostre parole, parliamo troppo e a vanvera, senza analizzare il senso di quello che diciamo; in questo modo, il parlare viene così utilizzato come mezzo per scaricare lo stress e come metodo di difesa per mantenere il controllo delle situazioni. Potremmo quindi individuare, alla base dei disequilibri di questo chakra, la paura, il senso di colpa e la vergogna che derivano da situazioni da bambini si viene sgridati o non si hanno possibilità di rispondere e spiegarsi, ritrovandosi in una situazione di impotenza.
Volendo concludere, in tale tradizione (e comunque in ogni tradizione culturale che voglia lavorare al benessere dell’individuo), lavorare con il quinto chakra o con tutte le problematiche che ruotano intorno al “peccato di gola” significa prestare attenzione, in modo morigerato e senza mortificarci, al modo in cui comunichiamo il nostro esistere, partendo dall’ascolto di noi stessi attraverso il silenzio, passando all’ascolto degli altri ed infine arrivando all’espressione di ciò che siamo e sentiamo, riscoprendo la nostra voce (in modo gratificante) per comunicare in modo consapevole, accurato, preciso e creativo, nonché ascoltando e accogliendo la verità degli altri, facendoci ricercatori di quel gusto di vivere che, in sintesi, può essere il sapore dell’amore di Dio nella nostra vita.
a cura di Salvatore Rotondi