di Salvatore Rotondi
“Chi non riesce più a provare stupore e meraviglia è già come morto e i suoi occhi sono incapaci di vedere.” (Albert Einstein)
“Uno spirito che non si esercita in nulla diventa grezzo e pesante nell’inerzia.”
(Jean-Jacques Rousseau)
“Quando non si fa nulla, ci si crede responsabili di tutto.” (Jean-Paul Sartre)
“La natura non conosce pause nel progresso e nello sviluppo, ed attacca la sua maledizione su tutta l’inattività.” (Goethe)
“L’Accidia una freddura, ce reca senza mesura, posta ‘n estrema paura, co la mente alienata.” (Jacopone da Todi)
“È un peccato il non fare niente col pretesto che non possiamo fare tutto.”
(Sir Winston Churchill)
Etimologicamente, il termine accìdia deriva dal greco ἀκηδία (negligenza), composto da ἀ- privativo (senza) e κ ῆ δος (kedos, ovvero “cura, dolore”), che sembra altresì collegata alla radice sanscrita Khad (frangere, mangiare); tale radice potrebbe portare, inoltre, a spiegare il concetto delle Curae Edaces (cure divoratrici) dei Latini (che ritroviamo in un certo senso nell’azione delle cagne del canto XIII del Purgatorio Dantesco), le quali darebbero così il senso del “rodimento” proprio dell’uso anche comune di tale termine.
L’accidia designa quindi la negligenza, l’indifferenza, l’in-curia, l’in-dolenza, la mancanza di cure e di interesse per una cosa; non è pertanto una pigrizia generica ma è, invece, il fastidio o inerzia, il disinteresse indifferente verso l’azione, in particolare verso un’azione migliorativa, benefica, volta alla crescita di sé; in particolare, nel lessico religioso, la negligenza è riferita in particolare alla cura dell’anima e all’esercizio delle proprie virtù. In un certo senso, l’accidia sembra essere un vero e proprio abbandono spirituale di sé, collegabile direttamente ad un orizzonte psicologico di stampo melanconico. Così, d’altronde, sembrano apparirci accidiosi tutti quegli adolescenti di oggi totalmente privi di interessi, afflitti dalla monotonia delle impressioni, da sensazioni di immobilità e vuoto interiore, catturati dalla sensazione nitida di un rallentamento del corso del tempo e dal miraggio di fantasticati progetti grandiosi ma della cui realizzazione, però, si delega gli altri, in assenza di possibilità di un proprio impegno concreto. É in questo che, allora, si concretizza lo smarrimento estremo: si produce cioè uno stato d’animo che intacca e rischia di disorientare tutto ciò che raggiunge perché fatto con un gran senso di profonda “noia”, ovvero di uno stato psicologico ed esistenziale di insoddisfazione temporanea o duratura. Difatti, la noia può essere considerata la corrispondente dell’accidia del medioevo, un peccato capitale di cui si macchiavano coloro che, dediti alla vita contemplativa finivano per cadere nell’inerzia non operando il male ma neppure compiendo il bene.
L’uomo è comunque da sempre vittima potenziale della noia: è per batterla che, infatti, l’uomo ha iniziato a fantasticare con la mente, a disegnare sulle pareti delle caverne, ad uscire dal proprio guscio di puro istinto, per aprirsi al pensiero ed alle strutture organizzate sociali. Nonostante questo, però, la noia fu dipinta in modo profondamente negativo per molti secoli; appannaggio delle classi agiate, annoiarsi era inconcepibile per le masse popolari, le quali erano volte solo ed esclusivamente all’operare: non c’era tempo per la noia, bisognava faticare per sopravvivere. Nel Rinascimento, però, il sentimento della noia si nobiliterà (attraverso gli animi tormentati dei geni e degli artisti) in quello della malinconia, alla quale la cultura occidentale, specie nel Romanticismo, assegnerà il valore di ripiegamento meditativo dell’animo su sé stesso. D’altronde, secondo l’esistenzialismo contemporaneo, base motivazionale della noia è da considerare quel sentimento che consente di cogliere la totalità di sé innanzi al Mondo dell’Essere. La noia può nascere quindi come blocco difensivo dalla realtà (ad esempio l’angustia delle caverne per gli uomini del passato), per poi operare una crescita psicologica che renda più adeguato l’individuo con sé stesso e con il mondo esterno, a volte sconosciuto. Così definita, la noia può dirsi “normale” poiché caratterizza come fase di passaggio della vita come, ad esempio, durante l’adolescenza e la pre-senilità. Nell’ambito della “normalità” va considerata comunque anche la “noia reattiva” determinata da cause contingenti o la “noia acuta” di breve durata.
Quando allora parliamo di “noia” possiamo intendere quel senso di malessere e di disgusto che viene dall’assenza reale (o presunta) di stimoli interessanti, dalla ripetizione monotona degli stessi eventi o situazioni, dalla sensazione che il tempo non passi mai. L’incapacità di provare piacere ed interesse nasconde così un vissuto depressivo (utile, se non in eccesso, alla riflessione ed alla costruzione del pensiero) e credenze critiche e/o negative su di sé, come ad esempio un profondo senso di inadeguatezza e incapacità oppure una tensione estrema alla cautela. La noia pertanto segnala un rapporto alterato con i propri bisogni più profondi: chi si annoia non riesce a trovare dei sogni, uno scopo, qualcosa che lo motivi veramente. In altre parole, chi si annoia in questo modo, ha imparato a reprimere emozioni, bisogni, desideri. L’assenza di desiderio, tipica della noia, può proteggere difatti dalla frustrazione del desiderio: se io non desidero, non soffro. Quindi la sostanzialmente la noia si configura come un particolare modalità di difesa rispetto all’irrealizzabilità dei propri bisogni. Allo stesso tempo, però, l’annoiarsi potrebbe indicare che l’individuo sta intraprendendo una attività significativamente al di sotto del proprio livello di abilità (queste ultime più o meno consapevoli nel soggetto) oppure che si trova in una situazione che non presenta novità, sfide, eccitazione o richiedente un tempo di attesa troppo elevato rispetto agli standard d’azione dell’individuo (pensiamo ad esempio a tutti i ragazzi iperattivi e/o con deficit dell’attenzione).
Malinconia
Una realtà complessa come la noia e, sullo stesso orizzonte, l’accidia di cui stiamo parlando trae quindi origine da numerosi fattori che, però, sembrano tutti ruotare intorno ad un perno principale: l’eccessivo interesse smodato ed esclusivo per sé stessi, una passione questa che porta ad essere prigionieri del proprio io, l’idolo a cui innalziamo le nostre ultime preghiere inascoltate, quel vitello d’oro che ci isola e ci rinchiude nella Caverna della nostra forma, lontano dallo Spirito dell’Umanità. Difatti, se l’Io è il centro assoluto del nostro mondo, allora si valuterà ogni cosa solo in funzione dei propri bisogni, della propria idea, dei propri desideri e giudizi.
Poli dinamici di questo volano chiamato Io Assoluto sono poi altre due cause opposte dell’Accidia: l’ozio e l’attivismo estremo. L’ozio, in tal senso, non è quell’assenza di “negotium” proprio dei Latini volto alla cura di Sé, ma è la vera e propria mancanza di occupazioni, di interessi, soprattutto una realtà che rende la vita quotidiana amorfa e trascinata. Davanti ad ogni prerogativa l’ozioso così inteso si chiede “a che pro?” e trasforma la propria vita in un deserto. D’altra parte, lavoro e impegni eccessivi, che disperdono e creano molti punti di riferimento non collegati tra di loro, possono provocare uno stato di accidia: ci si è dati un compito al di là delle proprie forze e si crolla. Una dimensione, questa, che ci riporta alla mente il fenomeno psichico della malinconia.
La malinconia si presenta, infatti, come un vuoto informe, un anelo dello ieri che appanna il presente. Pochi stati ci immergono in una tale condizione di immobilità, stanchezza e sfinimento psicologico fino al punto da delineare una forma depressiva molto particolare che, in molti casi, può essere piuttosto grave se tale stato è volto esclusivamente alla propria chiusura rispetto a quanto, del Mondo, potrebbe scuoterci e cambiarci. La malinconia, dunque, non è mera tristezza, ma in un certo senso è come un pianeta chiamato depressione che nell’omonimo film di Lars Von Trier, da un momento all’altro, può scontrarsi con noi distruggendo ogni cosa.
Tutti noi comunque possiamo sperimentare la tristezza, ma quando è tale essa è sempre circoscritta in un momento dato e per specifiche e limitati ricordi; nonostante avvolga il presente con un effetto alone, essa lascia sempre spazio anche ad altri sentimenti, pensieri e motivazioni. Ma quando la malinconia si insedia nelle nostre vite, non lascia nemmeno un angolo libero. La persona smette di provare piacere, curiosità e interesse, abbandonandosi ad una Accidia assoluta, determinando così una completa e sconfortante alterazione dell’emotività e, di conseguenza, l’impossibilità a sperimentare qualsiasi tipo di sentimento, tristezza inclusa.
Abbandonandosi alla malinconia, l’uomo non padroneggia più la propria vita: le vicende lo avviluppano inestricabili, ed egli non sa più come vederci chiaro e cavarsela poiché tutto gli si pone innanzi come la parete verticale di una montagna impossibile da scalare.
Chissà, data la realtà dei nostri giorni, un universo sociale che ci vuole sempre più asserviti ai nostri singolari ed isolati Io di meri consumatori e/o produttori di contenuti fruibili da persone, gli Altri, sempre più passivi, lontani così dalle sfide di una vera connessione con lo Spirito Umano votato alla esplorazione ed al superamento di Sé, è inevitabile che ognuno di Noi faccia esperienza dell’Accidia, della Noia negativa, della Malinconia. Se fosse proprio così, allora diventa più che necessario non fuggire di fronte a questa situazione esistenziale. La fuga è infatti l’illusione di trovare altrove o diversamente una liberazione da questo pensiero.
Alla fine, siamo chiamati singolarmente e come Umanità, alla fine, a ricercare nuove forme di equilibrio, discrezione e moderazione in ciò che pensiamo e facciamo, impegnandoci a coltivare, ad esempio, pazienza e stabilità. Quest’ultima è la capacità di perseverare, di continuare un cammino anche se si è tentati di interromperlo bruscamente. La pazienza, invece, è un tempo in cui ci è data la possibilità di perseverare e rimanere nel quotidiano qui ed ora, senza “sognare la vita” fuggendo dalla sua precarietà. Tutto ciò comporta allora la rinuncia a tutte quelle illusioni che ci appaiono come alternative al presente; comporta accettare sé stessi e l’altro; comporta accogliere le fatiche dei propri impegni o il peso della comunità in cui siamo inseriti.
Abbiamo allora bisogno di ritrovare uno scopo, riprendendoci il gusto per una vita vera che possegga una misura ed un indirizzo preciso: la riscoperta di una saggezza che nasce dalla consapevolezza dei propri limiti e delle possibilità che sono in noi, permettendoci così un reale dominio di sé in connessione e comunione con l’Altro da sé, diverso ma pur simile sul piano dell’Esistente.
Salvatore Rotondi