In difesa di un malato di morbo di Parkinson


di Raffaele Esposito*

Pubblichiamo l’arringa dell’avv. Raffaele Esposito in difesa del proprio cliente presso il Tribunale della Sorveglianza di Cagliari ud. 11.10.2022

Sono un avvocato del foro di Napoli che per la prima volta prende la parola davanti alle Signorie Vostre. Alcuni colleghi mi hanno allarmato sulla vostra severità; ma non per questo ritornerò a casa senza onorare la mia toga.
Intendo partire, in questo mio sintetico intervento difensivo, dal quesito lasciato sospeso dal perito: le sofferenze aggiuntive del detenuto che non ha ritenuto di sua competenza, ma di quella del giudice.
Qui si impongono alcuni rilievi critici.
Le sofferenze aggiuntive che tormentano il detenuto rendendo penosa la sua detenzione, privandolo della sua soggettività, di essere persona, sono di un’evidenza autoptica, in senso semantico, ed erano oggetto di percezione visiva, sensoriale, proprio da parte del perito al momento della sua visita medico-legale del 20.06.2022 quando a pag. 14 scriveva: “Il quadro clinico appare decisamente complesso e fortemente invalidante tanto che all’atto della visita medica è stato possibile rilevare una scarsa cura della propria persona con unapressocché completa dipendenza nella deambulazione con la necessità di terzi per la verticalizzazione e con la necessità di un girello con braccioli per mantenere la posizione eretta con estrema fatica”.
La prova tattile delle sofferenze aggiuntive del detenuto emerge dallo stesso apparato argomentativo del perito.
Il perito servendosi della scala di Karnofsky, colloca lo status del paziente tra il 30/40 (persona francamente disabile che ha la necessità di speciali cure ed assistenza), così concludendo, con riferimento al primo quesito: “…si può affermare che il detenuto al momento della visita appariva nell’insieme in condizioni generali scadute e con una ridottissima autonomia personale”.
Ora stando alle unità lessicali, significanti, linguistiche, del perito, è “la ridottissima autonomia personale” che riduce il mio assistito ad un miserabile oggetto, a fargli perdere il diritto ad avere diritti.
Il morbo di Parkinson tremorigeno, la sua instabilità motoria che espone il mio assistito quotidianamente al pericolo di cadute; pericolo di cadute provocate dalla sua ipotensione ortostatica; gli esiti di recente frattura al femore; non può muoversi autonomamente anche per brevi tratti; le sue cadute continue, tutte documentate nel diario clinico; la sua paura ossessiva che quelle cadute si ripresentano; non si risolvono forse in quelle sofferenze eccessive in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario secondo il giudice delle leggi e quello di legittimità?
Quando, Signori del Tribunale, è emerso, sul piano dell’evidenza empirica, che il detenuto non è più in grado di svolgere quegli atti essenziali della vita quotidiana; non riesce a lavarsi, a prendersi cura di sé stesso; non riesce a vestirsi; non può cucinare; non può stare in piedi; è trascurato nell’igiene personale; non riesce ad alzarsi dal letto per andare in bagno; è legittimo domandarsi quali sono le sofferenze aggiuntive se non queste?
Vogliamo forse sostenere contro l’evidenza che l’esistenza del detenuto non sia al di sotto della dignità umana, dell’umiliazione, dello svilimento?
Con questi antecedenti che nullificano la capacità del mio assistito di autodeterminarsi, è legittimo domandarsi, in virtù di quale disciplina della ragione, può circolare il distinguo del perito (pag.27) tra capacità ideale e finalizzazione dell’azione, se la sua croce tormentosa è l’impossibilità in sé di vivere con pari dignità rispetto agli altri detenuti, di essere un detenuto capace di avere un legame con il quotidiano?
Vedete, signori Giudici, la solitudine del mio assistito è connotata dal concorso di altre patologie che accompagnano il morbo di Parkinson (ipertrofia prostatica, ipotensione ortostatica, ipertiroidismo); patologie che andavano esaminate congiuntamente per pervenire ad un  giudizio di complessità e di interferenza con il morbo di Parkinson.
Sfugge al perito e al Procuratore Generale che dietro quelle cadute continue si nascondono sofferenze, paure, e pericolo di morte.
Il ragionamento del perito (pag.24) con riferimento al pericolo quoad vitam, è dissipativo, precario, alogico.
Il perito prende atto dell’età avanzata del detenuto (anni 80); delle numerose cadute, tutte documentate, del pericolo di traumi cranici potenzialmente fatali; del pericolo delle piaghe da decubito facilmente infettabili; ma conclude per una prognosi infausta, potenziale, non concreta.
Oso pensare che nell’elaborato peritale difetti un criterio monologico che doveva essere connotato da una trasversalità dei saperi.
Se il perito, infatti, avesse avuto dimestichezza con studi di logica e di epistemologia avrebbe dovuto rendersi conto che, nella specie, il rischio di mortalità tra una caduta e l’altra andava quantificato in termini di probabilità, gradi di probabilità, probabilità aggiuntive , secondo il teorema di Bayes.
Diversamente si può parlare di pericolo quoad vitam solo ex post, e cioè quando il detenuto è caduto per l’ennesima volta ed è morto.
Secondo i miei indizi vi è uno iatusincolmabile tra i giudizi valutativi del perito e gli atti clinici.
Costui, servendosi della scala di Hoehn e Yar, ha collocato lo stadio del Parkinson tra il 4 e 5, tendente più a quest’ultimo (pag.23) così esprimendosi: “A questo punto il paziente non è in grado di vivere in modo indipendente”, così confermando, senza rendersene conto, le sofferenze aggiuntive che tormentano il mio assistito.
Senonché, con queste premesse, il perito afferma che il detenuto può essere curato in carcere quando a pag. 23 aveva scritto: “La gravità della patologia si intravede anche dall’esame obiettivo della visita medico-legale…”.
Lo afferma, con disinvoltura inedita, quando (pag.17) a proposito di altra patologia del detenuto: l’artrosi, sottolinea che urge una terapia fisica riabilitativa con mobilizzazione articolare e tonificazione muscolare; ma anche con laser, termoterapia, ultrasuoni.

Ebbene: ha accertato il perito se, in concreto, il mio assistito ha effettuato una sola di queste terapie?
Per quanto riguarda l’ipertiroidismo, il perito fa riferimento ad una radioterapia con iodio.
Il detenuto l’ha mai fatta?
Il perito osserva ancora che nella cartella clinica del detenuto non si riscontrano visite endocrinologiche, ma solo esami ecografici, inutili per la presente consulenza.
Ebbene nessuna inferenza logica-conseguenziale trae il perito da quella premessa.
Conclude che il detenuto può essere curato in carcere; ma a quali condizioni?
Il perito a pag. 26 afferma che il detenuto è abbisognevole di cure attente, costanti, specialistiche e non, che lo interessino nella sua persona, dalla semplice igiene personale, alla fisioterapia riabilitativa; dalla comune attività quotidiana alla terapia farmacologica.
Ebbene, se la grammatica è ancora la grammatica con validità erga omnes: se può essere curato in carcere ma a quelle condizioni; e se quelle condizioni non si sono ancora verificate, allora è un bisticcio logico-grammaticale quello del perito che nessuna disciplina della ragione può mai placare.
Le sue condizioni di salute, Signori del Tribunale, confliggono con l’etica della pena e della sua umanità.
Quale funzione deve avere la pena per il detenuto se egli non è in grado di percepire la sua funzione rieducativa, di subire la detenzione, di dolersi di un particolare trattamento?
È inutile fondare la fuga di fronte alla verità: il mio assistito non è socialmente pericoloso.
Se il bilanciamento dei valori, tutela della collettività e diritto alla salute avviene, secondo l’insegnamento del giudice delle leggi e di quello di legittimità, con criteri di ragionevolezza, di proporzionalità, di adeguatezza, allora il mio assistito non è pericoloso; se è vero come è vero che i fatti a lui contestati risalgono al 2005.
Signori, il mio intervento volge al termine; prendo atto che vi sono stati rigetti plurimi, sul territorio, della mia doglianza difensiva.
Sono io solo responsabile di quei fallimenti perché la mia parola non è stata all’altezza dell’istante ed indigente è stato il mio pensiero.
Ma io risorgerò dalle macerie, e forte dell’insegnamento di Nietzsche, che ogni cimitero ha la sua risurrezione, farò parlare il corpo del detenuto e l’ eloquenza del suo dolore!
Egli sta davanti a Voi, bloccato su di una sedia a rotelle; il tremore continuo scuote il suo corpo come una sorta di sisma; le sue labbra sono pendule; il suo sguardo smarrito si perde nell’infinito; il suo corpo-oggetto è un solo dolore; è, come direbbe Heidegger, un essere per la morte.
Davanti a questo corpo senza storia, i saperidebbono soccombere sotto la pressione e la collera dei fatti.
È questa la nuda vita del detenuto, per dirla con Foucault e Agamben; il mio assistito è ormai un essere inutile, fuori dell’universo carcerario.
Mi aspetto da Voi un provvedimento neutrale, giusto, che risponda ad una domanda di verità in tutta la sua ampiezza.
Se la Giustizia non è questa; se la Giustizia ha smarrito i suoi fondamenti, che il grande Calamandrei rinveniva nella misura, nell’equità, nella pietas, ed io, ultimo superstite dell’Avvocatura, dico, nel perdono, allora non mi riconosco in questa comunità e scelgo l’esilio con la mia toga.
Il grande giurista e politologo tedesco, Carl Schmitt, scrive nella sua celebre “Dottrina della Costituzione” che il giudice è libero non già dove sceglie linee di fuga, ma là dove si espone nell’essere suddito solo della legge, perché in quella sudditanza egli riscatta la sua miseria e la sua grandezza.
Concludo invocando la detenzionedomiciliare per il mio assistito presso la sua abitazione; subordinatamente in una struttura ospedaliera oppure presso l’ADL (Assistenza Domiciliare Integrata) o ancora arresti domiciliari umanitari ex lege n. 633/1986, modificata dalla Legge 165/1998.

Raffaele Esposito *avvocato in Napoli

 

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