di Salvatore Rotondi
“Un giorno la paura bussò alla porta. Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno.” (Martin Luther King)
“Il successo non è mai definitivo, il fallimento non è mai fatale; è il coraggio di continuare che conta.” (Sir Winston Churchill)
“Sii forte che nessuno ti sconfigga, nobile che nessuno ti umili, e te stesso che nessuno ti dimentichi.” (Paulo Coelho)
“La paura è umana, ma combattetela con il coraggio.” (Paolo Borsellino)
“Il sentiero della nonviolenza richiede molto più coraggio di quello della violenza.” (Mahatma Gandhi)
“Quando si dice la verità non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante.
Ci aiuta ad essere coraggiosi.” (Aldo Moro)
Forza, Coraggio e Incoscienza
Forza, Coraggio e…Incoscienza: questi attributi li ho sentiti associati, per buona parte della mia infanzia, alla mia persona e ad oggi, molto spesso, le sento associate, in positivo o in negativo, anche a tantissimi adolescenti. Come è possibile, però, che Forza e Coraggio possano essere legati all’Incoscienza? A cosa spingono tali atteggiamenti se non alla ricerca fattiva dell’essere sé stessi? Possono mai essere intesi come potenziale viatico di tendenze antisociali e/o di condotte autolesive? Cos’è veramente incosciente: l’atto o l’intenzione? Incoscienza può mai essere sinonimo di “senza controllo”? Sono queste le domande che mi hanno condotto alla stesura dello scritto qui presente.

Secondo quello che è di mia conoscenza relativamente all’ambito storico-umanistico, la Fortezza (in greco ἀνδρεία, andrèia; in latino fortitudo) è una caratteristica propria dell’Uomo (anēr), la quale lo rende capace di affrontare le difficoltà della vita, proteggendo coloro che si trovano sotto la sua responsabilità e per i quali egli è disposto anche a morire, ma sempre con dignità. È quindi quella virtù che, a partire da Platone (che la pone tra le virtù fondamentali sia della polis sia della persona) passando per Aristotele (che nella sua Etica (Etica Nic. 1115a, 6) la identifica con il coraggio e la fa consistere nel “giusto mezzo tra l’impetuosità e la codardia” sino ad arrivare a S. Agostino (che definisce la fortezza come “fermezza d’animo” (firmitas animi) in vista del godimento dei beni supremi) e S. Tommaso (secondo il quale la fortezza è la virtù che riesce a sottomettere le passioni alla Ragione), sembra assicurare, nelle difficoltà, la fermezza e la costanza dell’Uomo alla ricerca del bene, nonostante il dolore dovuto alle avversità della vita.
Tale termine, comunque, può primariamente far pensare esclusivamente alla prestanza fisica ed alla resistenza corporea e/o morale. Nell’accezione che invece qui vogliamo sottolineare, essa ha come proprio sinonimo principale il concetto di Coraggio già sopracitato. Quest’ultimo deriva dal provenzale coratge, ovvero dal latino coratĭcum, forma popolare di cor cordis (cuore). In quanto virtù, quindi, la Fortezza si lega direttamente al concetto ed al simbolismo proprio del Cuore, ovvero alla connaturata Forza d’Animo dell’individuo.
Il Coraggio
Il Coraggio è difatti concepibile come la reale forza d’animo individuale che permette di affrontare situazioni difficili, mantenendo comunque i principi e i comportamenti educati e civili. Il Coraggio è quindi unanimemente intesa come una caratteristica positiva, poiché ci aiuta a prendere decisioni difficili e ci spinge fuori dalla nostra zona comfort.
Nell’ambito della organizzazione delle virtù cardinali, La terza (quella di cui ci occupiamo qui) ci appare dunque come la manifestazione della forza da parte degli esseri umani, grazie alla quale essi nutrono la vita e sconfiggono la paura di esistere e prima ancora anche solo di vivere.
Una realtà d’altronde indispensabile per il vivere comune. Quando essa viene a mancare, tutti gli atteggiamenti potenzialmente aggressivi e antisociali (compresi il bullismo, la sopraffazione, la corruzione ed i comportamenti autolesivi e criminali) fioriscono per essere espressi e prosperare in modo incontrastato, poiché chi potrebbe impedirglielo si astiene dal prendere posizione.
Pensiamo a una tragedia della storia come l’Olocausto ebraico e le pulizie etniche nell’ex Jugoslavia negli anni ’90 del secolo scorso: di fronte al numero enorme di vittime l’esiguità degli esecutori.
Cosa significa essere forti?
Ma cosa significa essere veramente “forti?” La Fortezza richiede pazienza e speranza, una speranza che non può essere confinata alla vita tranquilla di una routine quotidiana: i suoi eventi, infatti, non ci danno quella sicurezza e quelle certezze che ognuno di noi cerca quando opera per dare un senso concreto alle proprie azioni. La routine ci racconta che è sempre tutto uguale e che noi non possiamo cambiare nulla, non possiamo “fare la differenza”. Essere forti, allora, significa anche ricercare questa differenza, fare la differenza, essere differenti, diversi. La fortezza è pertanto quella capacità di opporre una barriera alle forze distruttive e depressive delle nostre potenzialità; senza di essa diventa impossibile attuare la giustizia e la vita civile, ma anche le scelte ordinarie, che comportano non di rado degli atti sacrificali, ovvero delle azioni cariche di senso che vadano al di là del bene o dell’interesse puramente momentaneo ed individuale.
Tutto questo ci fa comprendere che esistono due accezioni della Fortezza: una accezione passiva, a cui si possono ascrivere la costanza, la fermezza, la capacità di sopportazione o pazienza, è tutto ciò che aiuta a rendere moderata la nostra propensione ad uscire da noi stessi, a superarci in modo audace, intrepido (quello che, comunemente, associamo negativamente con l’incoscienza giovanile), una vera e propria resistenza innanzi alle difficoltà, ai limiti posti dalla vita reale; oppure una accezione attiva altrettanto importante, a cui si possono ascrivere il coraggio, l’ardire, la grandezza d’animo e tutto ciò che aiuta a moderare la “timiditate”, la timidezza, ovvero la paura di potersi esporre, perdere le proprie sicurezze, le certezze ritenute incrollabili, le archetipe Torri svettanti sulle quali ergersi per raggiungere e comprendere Dio, come nella famosa Torre di Babele soggetta alla trasformazione/cambiamento dovuti fulmini divini, la concretezza del coraggio di chi aspira alle Altezze dei Cieli. In entrambe le sue accezioni, la posta in gioco resta dunque la forza interiore, la forza morale, la forza del carattere.
La Fortezza inoltre, da questo punto di vista, corrisponde a ciò che il buddismo chiama virya, il quale costituisce il sesto stadio dell’ottuplice sentiero detto “retto sforzo”. É poi molto presente anche nella tradizione musulmana dove viene chiamata jihad, termine però tristemente noto come “guerra santa” ma che primariamente significa “sforzo” o “lotta interiore” e che di per sé rimanda al perfezionamento della fede e dell’obbedienza personali.
La Fortezza sembra quindi essere, in diverse culture anche religiose, una vera e propria qualità del Dio. Difatti, è da notare come, a differenza del pensiero greco (alla base del pensiero occidentale laico) per il quale la fortezza è un principio cosmico della Natura cieca, la religiosità ebraica stessa ponga la Fortezza e ogni principio energetico in un Dio personale, Signore della natura e della storia. Nel Nuovo Testamento, oltre che qualità di Dio, la Fortezza diviene d’altronde proprietà del Cristo, dato che si manifesta in Gesù attraverso i miracoli che, nella catechesi primitiva e nei primi tre Vangeli, sono designati quali “forze” (dynameis) che testimoniano l’approvazione di Dio e sono segno della dignità e dei poteri trascendenti l’umana natura.
Gesù, inoltre, trasferisce la sua fortezza (la sua capacità di resistere alle tentazioni del Maligno, ovvero del pensare in negativo, dell’arrendersi innanzi all’ostentato potere individualistico) anche ai suoi seguaci, in particolare agli Apostoli. Così, l’azione piena di fortezza degli Apostoli (nella fedeltà alla loro vocazione, nonché della parola di Dio che abita in loro) e la condotta dei cristiani generosi irradiano la forza del Vangelo, ovvero la forza salvifica di Dio e del suo Spirito Santo.
Come dono dello Spirito Santo, infatti, la Fortezza consiste, secondo la patristica cristiana, in una speciale fiducia infusa nell’animo capace di escludere ogni timore. La mozione dello Spirito Santo fa sì che l’uomo giunga al fine di ogni opera buona cominciata sfuggendo, in questo modo, a tutti i pericoli imminenti, cosa che eccede le forze della natura umana. Al dono della fortezza corrisponde, pertanto, la quarta beatitudine, perché se la fortezza si mostra nelle cose ardue, una delle cose più ardue è non solo compiere le opere della Giustizia, ma averne un insaziabile desiderio, cioè la fame e la sete. La fortezza sostiene così la volontà del bene di fronte ai mali corporali, fino al più grande di essi, la Morte.
La Forza intesa come espressione della propria essitenzialità
In tal senso, possiamo pensare che, come per gli altri esseri viventi, anche per noi umani l’istinto di Sopravvivenza è la Forza più grande, che ognuno esercita spontaneamente del tutto a prescindere dal pensiero razionale, il che mostra nel modo più chiaro che la nostra più intima essenza in quanto esseri naturali è il nostro desiderio di vita. Ma siccome, però, tale perseverare nell’essere è possibile solo grazie all’uso della forza, ne consegue che l’uso della forza come atto essenziale per proteggere la vita è una vera e propria virtù capace, altresì, di superare la concezione individualistica del singolo soggetto per accedere, negli umani così come nelle organizzazioni complesse (come nei formicai o negli alveari) ad una percezione dell’importanza della sopravvivenza della identità comunitaria/specie innanzi a tutto, finanche a sé stessi. Preservare l’identità collettiva diventa così un Forte Imperativo Categorico, il quale si fa appunto virtù cardinale poiché volta al bene al di là di noi stessi e della tentazione di sentirci onnipotenti. Essere Forti, da questo punto di vista, diventa pertanto sinonimo di cedevolezza, di consapevolezza dell’essere frazione di una Potenza trans-individuale, in contrasto alla rigidità posta entro i limiti invalicabili di una individualità abbandonata ed isolata nel proprio mondo solipsistico. Chissà, forse la stessa malinconica solitudine individuale ha origine proprio da una rigidità del genere.
Se allora il nostro primo compito di esseri viventi è nutrire e custodire la Vita, così come inteso anche dal Taoismo, secondo il quale noi dobbiamo anzitutto preservare con cura l’energia vitale e badare a non perderla, nutrirsi di vita e nutrire la Vita non può essere realizzato senza esercitare la Forza intesa quindi come espressione della propria esistenzialità, capace di superare i confini del singolo ma senza necessariamente prevaricarne i limiti di esercizio del proprio potere concesso dall’appartenenza ad una comunità definita.
Resta comunque ineluttabile che, nell’individuo, la paura del dolore e della morte può essere tale da risultare agghiacciante e da condurre chi la subisce non solo a non Esistere, secondo il concetto di Fortezza così come essa è stata qui esposta, ma neppure a Vivere pienamente, passando così l’intero arco temporale della propria vita come con il fiato eternamente sospeso e nella continua assenza decisionale innanzi all’oscurità percepita del proprio singolare futuro. Anche per questo, infine, non si tratta tanto di disprezzare o temere il dolore e la morte in sé stessi, quanto la Paura che ne abbiamo, cercando di essere più Forti di tale paura esercitando, per l’appunto, la virtù della Fortezza o del Coraggio dell’Umana specie.
Salvatore Rotondi