di Salvatore Rotondi
“In ogni cosa la sua misura – Est modus in rebus.”
(Tito Maccio Plauto)
“La ricchezza non consiste nell’avere grandi proprietà, ma nell’avere pochi bisogni.” (Epicuro)
“È il digiuno che fa il santo, e la temperanza l’uomo di buon senso.”
(Jules Renard)
“La temperanza e il lavoro sono i due veri medici dell’uomo:
il lavoro aguzza l’appetito e la temperanza impedisce di farne abuso.”
(Jean-Jacques Rousseau)
“Se si oltrepassano i limiti della temperanza, i più grandi piaceri cessano di esserlo.” (Epitteto)
“Tutte le cose con temperanza… inclusa la temperanza.”
(Ralph Waldo Emerson)La virtù di mezzo
La virtù, come la verità, sembra che sia posta sempre nel mezzo o, almeno, così credevano nei tempi passati. Ad oggi, invece, sembra che tutto debba essere posto al limite, nell’eccesso, nella forzatura dei tempi e dei modi di fare per poter essere percepito come reale, come possibilitato ad accedere al successo, alla visibilità. Rispetto ai tempi in cui viviamo, invece, la temperanza (in greco σωφροσύνη, in latino temperantia) è e rappresenta la virtù della moderazione.
La temperanza nella storia del pensiero umano
Nel mondo cristiano, come ci è possibile sapere, essa fu indicata da Tommaso d’Aquino come virtù cardinale insieme a prudenza, giustizia e fortezza, risultando poi essere il collante delle altre tre virtù, che non sono veramente complete se non sono da essa accompagnate. Difatti, se pensiamo al profondo legame tra spiritualità ebraico-cristiana e classicismo greco, la temperanza veniva intesa come il giusto mezzo (mediocritas) tra intemperanza e insensibilità, capace di portare al pieno acquietamento delle passioni e alla giusta misura in ogni cosa. In tal senso, mi sovviene allora l’immagine del Giudizio sulla Vita dell’uomo egizio, innanzi al tribunale di Osiride, quando su una Bilancia si pesa il suo Cuore confrontandolo con una piuma.
L’esercizio della temperanza, pertanto, porterebbe alla modulazione dei piaceri, permettendo così il raggiungimento dell’equilibro tra il proprio desiderio e l’uso dei beni a nostra disposizione: il mezzo, quindi, attraverso il quale raggiungere il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà e del bene reciproco, dell’amore assoluto, quasi divino. Molte religioni, infatti, invitano i loro fedeli a praticarla attraverso opere di mortificazione della carne come il digiuno o la castità. Ad esempio, nel buddhismo la temperanza è uno dei cinque precetti dettati dallo stesso Gautama Buddha, salvo il non avere la funzione di mortificazione, quanto quella di addestramento alla disciplina e di favorire l’apertura mentale con lo scartare, attraverso la dimenticanza, tutto il superfluo portato dai piaceri fini a sé stessi.
Allo stesso modo, in tal senso, Aristotele insegnava che la temperanza “è una medietà relativa ai piaceri” (Etica Nicomachea III, 10). Il termine greco che Aristotele utilizza per rendere evidente il suo pensiero in tal senso è infatti edoné, il quale non solo sta ad indicare il senso del piacere ma altresì anche quello della gioia; nella sua forma plurale, inoltre, tale termine ellenico stava ad indicare non solo le passioni ma anche tutti quei desideri voluttuari che potrebbero addirittura portare alla follia. La temperanza allora si pone così nel mezzo fra due eccessi, che nei casi estremi si manifestano nell’insensibilità e nella sfrenatezza degli atteggiamenti individuali: forze opposte che possono, psicologicamente, danneggiare destrutturando una persona.
Proprio per questo, la virtù di cui qui stiamo parlando tocca direttamente l’individuo, in quanto legata direttamente alla volontà dell’uomo stesso e avendo come obiettivo quello di moderare gli slanci della natura umana, invitando a fare dei propri desideri e della gioia un loro uso ordinato, armonico, costruttivo. Questo però non vuol dire che l’uomo virtuoso, sobrio, non possa essere “spontaneo”, non possa gioire, non possa piangere, non possa esprimere i propri sentimenti, non significa cioè che egli debba diventare insensibile o freddo verso sé o gli altri ma, al contrario, tenendo conto della natura complessa dell’essere umano bisogna riconoscere che egli non può raggiungere questa spontaneità matura, se non attraverso un lavorio su se stesso e una particolare “attenzione” (temperanza) su tutto il suo comportamento.
Tutto nell’esistenza tridimensionale dell’essere umano, d’altronde, traspare e si veicola attraverso il proprio comportamento, ovvero il modo in cui Egli occupa il proprio spazio-tempo (pensiamo ad esempio, a livello rappresentativo, all’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci).La temperanza come guida
Anche per questo possiamo sostenere che la temperanza è quella virtù che chiama in essere e guida (attraverso l’esercizio della mente e dello spirito) innanzitutto il rapporto con il nostro proprio corpo e con quello altrui. Non per niente è la virtù che viene chiamata in causa nella lotta contro i due vizi capitali della gola e della lussuria. Nella prospettiva giudaico-cristiana, in particolare, la temperanza è difatti l’evidenziarsi esteriore di quel rapporto singolare che dentro di noi esiste tra l’anima e il corpo. In tale prospettiva, allora, se l’uomo si lascia guidare interiormente dall’amore, il suo corpo e l’uso del suo corpo ne porterà direttamente il riflesso anche nel suo modo di relazionarsi con gli altri. L’uomo intemperante, l’uomo che non ha misura, indifferente alla rispettosa diversità tra sé e l’altro (ovviamente a vantaggio del proprio sé come nel Narcisismo patologico), è infatti così perché in fondo non ha relazioni sane con il proprio prossimo. Quando la relazione non esiste tutto diventa un mero accaparrarsi di cose, situazioni, persone.
Il concetto veicolato dalla virtù della temperanza è allora quello della padronanza di sé, poiché non tutto ciò che sperimentiamo nel corpo e nell’anima va lasciato senza freno né limitazione ma, al contrario, la vera grandezza sta proprio nell’esercizio moderato del proprio sé, del proprio potere che si fa apertura nell’ascolto dell’altro e non nella affermazione predatoria dei propri appetiti, come accade, ad esempio, nel buon umore il quale, come arte di conservare la “giusta misura” (métron) dal mondo per puntare meglio all’essenziale, è capace di mantenere il giusto equilibrio fra la battuta e lo scherzo volgare e scurrile e la freddezza.
La figura che, in modo efficace, mi sovviene per rappresentare tutto quello che ci siamo detti fino ad ora è lo stato di una donna quando è in gravidanza. Ella deve essere molto attenta al suo corpo, ad ogni minima trasformazione, ma anche ad ogni tipo di cibo che assume. La sua è un’attenzione che parte dall’amore per quel figlio che porta in grembo. Il corpo della donna, in questo caso, è al servizio di quella relazione particolarissima che intercorre tra madre e figlio, è a servizio del Dono della Vita, del bene massimo di ognuno di noi, attraverso l’esercizio della temperanza, dell’autoeducazione della nostra volontà, che ci permette di contattare la soglia tra la gioia e il dolore, la vita e la morte, onde superarla come degli equilibristi, senza eccedere in nessuna di esse, per rendere visibile all’Altro l’essenza della bellezza del Volto dell’essere umano, nel pieno del proprio Vero Sé.a cura di Salvatore Rotondi